martedì 30 ottobre 2007

TORRE TRESCA

Abitare in un ghetto: due chiese, tre negozi, una scuola. Un mare di verde a circondare dodici capannoni in legno, poche case in muratura, oltre mille famiglie, migliaia di anime. Tutte unite da una strada cosparsa di ghiaia, che costituiva per il piccolo abitato l’unica via transitabile, polverosa sotto il sole, fangosa con la pioggia. Estate rovente, caldo autunno, inverno innevato. Anno 1953.
La mia primavera cominciavo appena a viverla, quando la morte di Nico sconvolse l’esistenza della mia famiglia. Per Babbo e Mamma fu un durissimo colpo perdere il loro bambino più piccolo in quel tragico modo. Soprattutto per Mamma, che se lo vide scivolare dalle braccia e cadere dal balcone di casa. Abitavamo in via Carulli, al primo piano del 114. L’abbiamo sempre chiamata “la casa di zia Mamma”, una zia di mio padre che per più di quindici anni ci ha dato ospitalità; all’inizio soltanto ai miei, poi a noi ragazzi, man mano che s’arrivava. La guerra aveva portato come sempre distruzione e miseria, le case erano poche, ogni famiglia s’arrangiava come poteva. In quell’unica stanza fui il primo ad arrivare; Lilli mi seguì un anno dopo; avevo cinque anni quando ci raggiunse Elvira, che sarebbe rimasta la nostra unica sorella. Il giorno della disgrazia il piccolo Nico aveva appena tredici mesi, quando a me ne mancavano solo quattro per i nove anni. Io e Lilli eravamo stati a ritirare le pagelle; tornati a casa, notammo gente presso il nostro portone. La evitammo per salire e sulle scale fu zia Mamma ad informarci. Alle nove di quella stessa mattina mia madre, sfuggito il bambino dalle sue mani, si era precipitata in strada per raccoglierlo e con un auto di passaggio, rarissime a quel tempo, aveva raggiunto l’ospedale, allora situato provvisoriamente nel palazzo dell’Università a piazza Umberto. Ma non si era potuto far niente, Nico morì a mezzogiorno. Mio fratello minore aveva le guance paffute e rosee, la pelle ambrata, capelli a buccoli biondissimi, occhi grandi e vispi d’un intenso celeste, proprio come quelli di Babbo. Ben proporzionato e alto per la sua età. Un vero serafino, come quelli che dipingeva spesso mio padre. Bello, bello, bello. Il Signore s’era lasciato scappare un angelo e lo rivolle subito a Sé con quel volo proprio angelico dal balcone, nonostante quella grossa chiazza livida sulla tempia sinistra. Lo ricordo ancora sul letto di morte, un prezioso ninnolo rotto fra quei cioccolatini e confetti con cui mani familiari l’avevano composto. Mamma non sarebbe stata più la stessa, aveva trentatré anni. Avrebbe poi subito, per l'involontaria disattenzione di un momento pagata caramente, anche un processo penale, da cui ne venne fuori per insufficienza di prove, perché nessuno volle testimoniare contro una madre già colpita a morte; solo il cieco cinismo di una giustizia stupida poteva arrivare a tanto; cominciai a capirlo d’allora. In seguito, anche nei rari momenti in cui le veniva da sorridere, quel dolore cancellò la radiosità dal viso ancora giovane di mia madre, lasciando una sottile ombra a velarle per sempre gli occhi. Babbo, quarantatreenne, fu preso da un dolore così intenso da svenirne. Non avevo mai visto mio padre disteso in terra, occupava l’intero pavimento della cucina. Ripresosi a fatica, tirò fuori la sua corazza di maschio che la società gli imponeva, e vi richiuse lo strazio tremendo che la perdita di quel figlio gli aveva procurato. Io, Lilli e in maggior misura Elvira assorbimmo le conseguenze della tragedia con meno dolore, aiutati molto dalla nostra giovane età. Era la vigilia di Sant’Antonio e tutto accadde in un attimo, mentre suonando transitava la banda in giro per il quartiere.
I miei decisero subito di lasciare quella casa che ci avrebbe sempre ricordato il tragico fatto. Ma era una decisione non facilmente realizzabile per la carenza di abitazioni che da sempre affliggeva il paese. Mamma aveva già fatto due tentativi infruttuosi per ottenere una casa popolare. Al terzo ci andò meglio, ma l’appartamento assegnatoci alla Stanic non piacque a mia madre. La prima volta che si recò a vederlo, dalle finestre aperte le apparve sullo sfondo l’immutabile squarcio del Cimitero. “Madonna mia! Devo vedere per sempre questo bel panorama? No, no; non mi piace; Vi passerò l’eternità lì dentro quando sarà il momento; non voglio farlo anche da viva. No! Non la voglio ‘sta casa.” Furono le uniche parole che mia madre disse in quella fredda abitazione, non immaginando neppure alla lontana che di là a poco in quel Sacro luogo vi sarebbe andata ogni giorno. Comunque, la fisima di mia madre e la lontananza dalla Sud-Est, la ferrovia dove mio padre lavorava, li costrinsero a rinunciare all’alloggio e, inconsapevolmente, a condannare mio fratello.
Nel giro di pochissimi giorni, nonostante il dolore che l’affliggeva e che mai più l’avrebbe abbandonata, Mamma trovò una soluzione momentanea, ma indicatissima, per poter finalmente avere una casa popolare. Negli ultimi anni era diventata una consuetudine dimostrare di vivere, seppur per pochi mesi, in veri e propri tuguri sovraffollati per ottenere l’assegnazione di un’abitazione. E’ quello che fece mia madre in previsione del nuovo bando dell’Ina-Casa per nuovi alloggi in costruzione a Japigia, quartiere periferico di Bari in forte espansione in quei primi anni cinquanta.
Nella zona compresa fra la Chiesa di Santa Fara e il Canalone, proprio a ridosso della stradina sterrata che lo costeggiava, sorse nel 1940 Torre Tresca. Insediamento provvisorio di pochi capannoni in legno per il ricovero dei prigionieri inglesi durante il conflitto nazista, divenne un vero e proprio villaggio residenziale negli anni cinquanta, appena più di un lager, privo com’era di tutti i servizi primari. Ma la fame di case e la convinzione che sacrificarsi qualche mese nel ghetto portava in premio l’abitazione popolare, costrinse qualche migliaio di famiglie a occupare il vecchio lager a rotazione: via una dentro l’altra. Percorrendo la strada di Santa Fara e deviando per la diramazione a sinistra della Chiesa, si raggiungeva Torre Tresca. Era frequente in quegli anni che carri piani stracolmi di gente e masserizie, tirati da un paio di cavalli al massimo, si incrociassero su quella stradina: in un senso andava gente che s’apprestava a occupare, mesta ma speranzosa, la misera stanza lasciata libera da famiglie ben liete di avviarsi, nel senso opposto, verso casa nuova.
Mia cugina Maria, abitava lì da qualche tempo. Mia madre e la nipote decisero di dividere a metà la stanza che lei occupava col marito Giovanni e i sette figli. I nostri parenti si sarebbero sistemati alla meno peggio nella parte anteriore con la porta d’ingresso; noi nella posteriore con l’unica finestra, divisi solo da un’enorme panno scorrevole come parete divisoria. Per abbandonare il più in fretta possibile la casa del dolore, il quindici giugno, due giorni dopo il funerale di Nico, in attesa che Mamma e Maria sistemassero alla meglio le nostre cose nella mezza stanza, trovammo ospitalità a casa del fratello di mia madre, zio Angelo, che con la famiglia aveva casa popolare a via Orazio Flacco. Stazionammo in quel bivani un paio di settimane.
I primi di luglio, a bordo di una tipica carrozza (Babbo non dimenticava mai le sue origini “nobili”) da posteggio trainata da un cavallo baio, seguiti dal consueto carro piano con la nostra roba, ci avviammo verso i nove mesi più avvincenti della mia vita. Lasciavamo dietro di noi l’asfittica zona centrale della città col traffico ordinato, perché ancora limitato a poche auto, per avventurarci in un mondo a noi sconosciuto. Ci aspettavano giorni impensabili per noi ragazzi del centro, penalizzati da spazi esigui e dal verde ridottissimo del quartiere murattiano. Varcate le due colonne che limitavano l’ingresso del ghetto, a meno di cento metri dal Canalone, ebbi la sensazione di oltrepassare la Soglia del Tempo. All’improvviso eravamo stati catapultati in quel far west che riempiva le nostre fantasie, alimentate dai tanti fumetti in auge allora; la nostra tv di carta in quegli anni. Si prospettava alla mia giovane età l’occasione per un radicale cambiamento di vita, del tutto nuovo. Un’esperienza in praticità che mi sarebbe tornata utile per sempre. Trasportato in un baleno dalle anguste strade del centro urbano a quello sterminato spazio verde, mi sembrava lo stesso sogno che, cominciato a tinte fosche due settimane prima, andava trasformandosi via via in tinte più luminose. Non avevo di certo dimenticato quello che mi era successo, ma l’incostanza dell’età mi permetteva di superare con meno dolore il triste momento. Appena entrati nel nuovo territorio, dal mio ottimo posto d’osservazione, a cassetta col vetturino, notai subito che le costruzioni più grandi, in legno imbiancato di fresco per la stagione, avevano i tetti spioventi ricoperti di tegole rosse. Ne contai dodici, sei per ogni lato della strada principale, poste una di fronte all’altra. I capannoni in legno erano preceduti sulla destra da alcune costruzioni in muratura con la copertura piana, in cui erano sistemati il Corpo di Guardia dei Vigili Urbani, un fruttivendolo e alcune famiglie. A mezza strada, sulla sinistra, c’era la Chiesa principale del villaggio, oggi sconsacrata. L’edificio della scuola elementare, in fondo alla strada di ghiaia, costringeva a svoltare ad angolo retto nei due sensi. A sinistra vi era un campo da calcio, che fronteggiava tre file di costruzioni, una dietro l’altra, completamente in muratura, suddivise in tante stanze ognuna occupata da una famiglia. In una di queste stanze abitavano, da qualche anno, il nonno con la nonna e zio Vitino, nell’altra affianco zia Tina con il marito Onofrio. A destra, una stradina più piccola saliva leggermente sino a collegarsi alla strada che costeggiava il Canalone. Al culmine dell’erta vi era a sinistra un altro gruppo di casette monovano in muratura, simili a quelle in basso; di fronte alle casette c’era l’altra Chiesa del villaggio, una vecchia cascina trasformata in luogo di culto, che tutti chiamavano la “Chiesa di sopra”. Le costruzioni, in legno o in muratura, erano esclusivamente col solo piano terra, ad eccezione della “Chiesa di sopra” che aveva il luogo di raccolta dei fedeli al primo piano, a cui si accedeva con una ripida scalinata di pietra. Tutte le abitazioni avevano i servizi igienici in comune, ubicati in grandi stanzoni che fungevano da lavatoio e gabinetti, in fondo ai capannoni in legno o all’estremità delle costruzioni in muratura. Ed era un continuo andirivieni di gente armata di asciugamani, che percorreva il lungo corridoio dei capannoni o il tragitto all’aria aperta per raggiungere i servizi in comune. Vi era una costruzione del tutto diversa dalle altre; l’unica abitazione singola, appena discosta dalla Chiesa principale. Una casetta in legno col tetto a falde ricoperto di tegole e un bel giardino tutt’intorno; pareva uno dei capannoni in miniatura. Vi abitava il vigile Zaccaria con la sua famiglia; era da tutti nominato “lo Sceriffo di Torre Tresca”. Gli altri due negozi erano uno di generi alimentari proprio di fronte al capannone 10, e l'altro nella zona alta dell'abitato che vendeva un po' di tutto, compreso petrolio per lampade, poichè nel villaggio non c'era luce elettrica.
L’atmosfera creata dal nostro arrivo fu del tutto simile a quella che suscitava l’arrivo della diligenza nei villaggi del vecchio West. Erano gli anni d’oro di Tex, Capitan Miki, Il Grande Blek, nostri eroi di carta; chiaro che quelle avventure suggestionassero i ragazzi, che a frotte si attaccarono alla carrozza. Chi non riuscì a trovare appiglio, ci scortò fiancheggiandola sino al capannone 10, il penultimo sulla destra, dove c’era la stanza 26 che avremmo diviso con i miei cugini. Le stanze situate in ogni capannone erano una cinquantina, una di fronte all’altra lungo un corridoio che terminava ai servizi comuni. Due grandi portoni esterni in legno, posti sulla facciata principale e su quella posteriore, chiudevano gli accessi al corridoio; ma per incivile menefreghismo erano lasciati quasi sempre aperti. Arrivati all’ingresso principale del nostro capannone, i ragazzini circondarono la carrozza in attesa di vedere chi fossero i nuovi arrivati. Appollaiato in cassetta, mi sporsi lateralmente, stupito dal clamore. Affacciato al finestrino vidi Lilli divertito con la sua bionda chioma al vento. La nera testolina di Elvira che sbirciava in giro curiosa. Nei loro occhi, celesti dell’uno e verdi dell’altra, lo stesso mio stupore. Babbo era appoggiato allo schienale del sedile interno. Il suo volto esprimeva dolore passato e incertezza futura. Mamma gli era di fronte, non potevo scorgerla. Ma sul volto di mio padre, come in uno specchio, potevo immaginare riflessi gli stessi sentimenti. Il cielo, limpidissimo, era di un azzurro violento. Indifferente.

redatto a Bari il 7.2.1977

Nessun commento: