venerdì 25 novembre 2011

UMANE DELUSIONI
Michele, mi hai sommamente deluso. Mi ero rivolto a te con la certezza che ti sapessi far valere, o che almeno contassi qualcosa in commissione, ma non sei riuscito ad aiutare quel ragazzo che ti avevo segnalato, figlio di un mio amico, nostro collega nello staff dei tecnici del Comune di Bari; in realtà m’accorgo di averti sopravvalutato. Riandando alla mattinata d’inizio degli esami, quando ti ho contattato all’Euclide, mi torna in mente quella tua sibillina frase “Non possiamo mica promuoverli tutti; un paio almeno dobbiamo bocciarli”; e allora il tarlo che tu fossi prevenuto, forse per conformarti alle statistiche, ha cominciato a rodermi. “Ma perché, Signore Santo, se trenta, mille, diecimila ragazzi sono più o meno sullo stesso livello, non devono essere tutti promossi!” ti risposi. E quel ragazzo lo è stato allo stesso livello degli altri, per la semplice ragione che, dopo aver terminato il suo compito, non ha fatto altro che farlo copiare ai suoi compagni: vatti a rivedere gli scritti e te ne accorgerai. A questo punto voglio farti sapere che io in quelle commissioni ci sono già passato. Se non credi a quello che sto per dirti, hai la possibilità di informarti presso almeno un paio di geometri del catasto che hanno fatto gli esami nella mia commissione, la n° 182 nel 2002, o presso gli altri quattro componenti quella commissione. Mi son battuto subito, allora, per la promozione incondizionata e in blocco di tutti i ragazzi; in fondo noi rilasciavamo solo un semplice “patentino” per iniziare quei giovani al lavoro, sarebbe stato poi l’immenso campo della vita pratica a selezionarli. Ho lottato strenuamente ed ho vinto; infatti tutti i quarantotto ragazzi della mia commissione furono promossi in quella sessione del 2002. Sicuramente il mio comportamento è logica conseguenza della mia atavica benevolenza per le generazioni che mi seguono, dovuto al semplice fatto di essere sempre stato fra i giovani per aver cresciuto sei bravi figli nell’arco di quarantun’anni, partendo dai miei vent’anni; perciò mi son creato e conserverò sempre una forma mentis giovanile. Continuerò ad aiutare i ragazzi sino alla fine. Non ti pare una meta bellissima? A me tanto. A loro dobbiamo lasciare in eredità questo mondo, pertanto comportiamoci meno da saccenti per essere più concreti, smussando loro ogni asperità sulla strada della vita. Sai quali sono le maggiori colpe di certi adulti, nonostante i segni di saggezza nei capelli o nell’età senile? In primis nel fatto di rimanere per sempre soltanto dei perfetti immaturi, addirittura ad un livello di immaturità molto al di sotto dei ragazzi che sono designati a giudicare. Poi in quello di sentirsi, appena nominati, tanti altezzosi professori universitari, e non semplice guida al collocamento nella vita produttiva di quegli stessi ragazzi. Inoltre, quella di brigare di continuo pur di farsi inserire in commissioni, collegi, consigli e organi fasulli simili, andando a costituire quelle micro castette al solo scopo di scimmiottare pedestremente le grandi caste, dimostratesi gravemente deleterie per ogni comunità civile. Anni fa è stata offerta anche a me la possibilità di candidarmi nel nostro collegio ma, quando ho consegnato il modulo richiesto con le motivazioni della mia candidatura, dichiarando che l’unico traguardo che mi prefiggessi era quello di limitare al massimo a due mandati l’elezione di ogni membro ed in ogni organo, fui subito escluso, non solo dalla lista degli eletti a priori, ma anche dai candidati a quell’elezione. Chiedi a Franco se racconto fole. Non ritengo concepibile che in un Paese repubblicano come il nostro sussistano ancora sacche in cui si regna per tutta la vita, con la clausola della ereditarietà dell’incarico. Per questo continuerò a battermi per l’abolizione di albi, collegi, consigli, casse ed altre amenità di eguale inutilità. Mi ricordano tanto il tempo della corsa all’oro, quando i poveri minatori si ammazzavano nel fondo delle miniere per poi vedersi sottrarre di mano il frutto del loro duro lavoro da disonesti bottegai che li attiravano nei loro sudici locali per depredarli.                                                                
Ritornando a noi, voglio portare a tua conoscenza, inoltre, un aspetto che non sei riuscito a cogliere nella veste di componente la tua commissione: è necessario in simile frangente tenere in debito conto che ogni candidato all’abilitazione ha trascorso almeno tre anni (due di tirocinio e quasi uno sino al giorno d’inizio degli scritti) lontano dai banchi di scuola. Ritornarci, gioca sempre qualche piccolo scherzo di tipo emotivo che si trasforma in panico paralizzante nei più timidi. Ed è qui che deve intervenire con affetto il vero maestro, il maestro-padre. Ed è proprio questo che intendevo quella mattina segnalandoti quel ragazzo; ti chiedevo semplicemente di districarlo da quei dubbi che in ogni compito, scritto od orale che sia, ci si presentano, consigliandolo intuitivamente. So bene che questo è compito dei grandi maestri, ma è proprio il compito che noi, indossando quei panni, siamo tenuti moralmente a perseguire se vogliamo bene ai nostri ragazzi. D’altronde, la vera abilitazione i ragazzi l’hanno conseguita, come ai nostri tempi, dopo cinque anni di studio e un esame di stato finale, ben più investita dall’ufficialità della Scuola che non, e mi ripeto, il semplice “patentino” per l’avviamento e il diritto al lavoro di quei giovani, che noi componenti di commissioni abbiamo il preciso dovere di rilasciare. Chiedendo il tuo intervento, ho solo cercato di dare una mano ad un amico troppo occupato per interessarsene direttamente, deludendolo a mia volta quando, invece, riponevo cieca fiducia nelle tue capacità caratteriali. Alla delusione, poi, s’è aggiunta tantissima amarezza nel momento in cui, nell’impeto istintivo, il mio amico mi ha riferito, da informazioni raccolte nel nostro ambiente, queste precise parole “Vito, quel tizio ti stava aspettando al varco. Probabilmente gli hai pestato i piedi professionalmente in qualche episodio scorso.” Sono rimasto incredulo che si dicesse questo di me; di me che ho fatto della correttezza, soprattutto nei confronti di colleghi, uno dei baluardi su cui ho poggiato tutta la mia esistenza, professionale e non; io avrei fatto dei torti a Michele o a chicchessia? Mai! Quando da qualche mio cliente ho ereditato pratiche di uno qualunque dei colleghi, se il cliente ne parlava male, l’ho immediatamente difeso a spada tratta, sapendo così di difendere soprattutto la dignità della nostra professione e categoria, il cui alto senso civico ho sempre avuto ben preciso nella mia coscienza. Non ho mai badato a farne, della professione, una fonte di ricchezza, o peggio, di interesse personale. Lavorando, ho sempre tenuto al primo posto il conseguimento dell’altrui felicità, perché è stato il solo nutrimento della mia vita. Operando per oltre trent’anni nell’ambito delle cooperative edilizie e dopo aver costruito qualche migliaio di appartamenti fra le provincie di Bari e Foggia, in un periodo in cui i casi giudiziari intorno alle cooperative erano sempre all’ordine del giorno, senza che mai la più lieve, trasparente e piccolissima nube adombrasse la mia persona, il momento più bello è sempre stato quello della consegna delle chiavi, quando potevo leggere, toccare con mano, la felicità che andava dipingendosi sul volto dei soci assegnatari di quegli alloggi. Quest’obiettivo mi bastava raggiungere per sentirmi completamente appagato; se si opera bene, e questo in ogni ramo del lavoro, il fattore economico diviene logica conseguenza di quella buona semina; comunque, io l’ho sempre posto quale ultimo e, appunto, consequenziale traguardo dell’opera svolta. Insomma, Michele, non sei stato capace di elevarti dalla massa, e se fosse vero della vendetta, ti sei comportato proprio da pezzo di uomo, al contrario del padre di quel ragazzo che, da perfetto galantuomo, non si è fatto nemmeno sfiorare dall’idea di “attendere al varco” terze persone innocenti, col boicottare le loro pratiche professionali inoltrate al suo ufficio. Ci è sempre stata odiosa la parte del lupo che, per mangiarsi l’agnello, sta sempre lì pronto a tirar fuori la misera, inverosimile e falsa storiella sulla ridotta trasparenza dell’acqua causata dai suoi avi ovini. Eh sì, è andata proprio così se volevi colpire me; nella foga vendicativa hai sbagliato completamente bersaglio, finendo per colpire un povero ragazzo incolpevole. Nella mia vita sono sempre andato a scavare per scovare il giusto, e mai sono tornato a mani vuote; sono ritornato sempre soddisfatto con la mia coscienza, anche questa volta. Non attendo risposta. Ti chiedo perdono per la mia durezza, Michele, ma tanto ti dovevo.
edito a Bari il 19.11.2011

mercoledì 23 novembre 2011

OGNI SCIALLA E' BARESE

Sto assistendo su rai3 alla trasmissione geo&geo e sento dire da una giovane studiosa che il termine "scialla", tratto da un film recentissimo, sarebbe in uso già dagli ultimi anni '90, e con un significato del tutto nuovo per noi baresi. Ma non è vero, la parola è molto più antica. Sin da bambino, e parlo dei primissimi anni '50, ho sempre sentito pronunciare da coetanei di mio padre e di mio nonno il termine "scialla", tratto dal verbo sciallare", per gente che andava in giro carica di soldi e, comunque, sempre riferito al denaro contante: "Uhè Colin, sta'j sciallat josc'" (Ehi Nicolino, stai pieno di soldi oggi) "Sind a mmè, Pasqual, u’ tin u’ sciall, s’nò u’ motor non tu doggh" (Ascoltami, Pasquale, ce l’hai il contante, altrimenti la moto non te la do) "Felù, Felucc, u' vit cudd, va semb g' rann c'u' sciall 'n guedd" (Raffaè, Raffaele, vedi quell'uomo, va sempre girando con i soldi addosso) "Mocch', chiamind a Giuuann accom sta' sciallesc" (Mamma mia, guarda Giovanni come sta spendendo) ”Pppin, vì' c’è bon chedd, t’ piasc eh? Ma, p’ faratill, ng’ vol u’ sciall assaj” (Peppino, vedi quant’è bella quella donna, ti piace eh? Ma, per uscirci insieme ci vuole tanto denaro) "Torucc, eh com t' piasc a sciallà" (Salvatore, eh come ti piace spendere soldi senza limiti). Posta in risalto la verità, rivendico la paternità tutta barese del termine, che a sua volta deriverebbe in pratica dalle parole "scialle" "sciarpa", riferito alla sensazione di calore, sicurezza e protezione che, come una sciarpa, dà il denaro avvolgendo ogni individuo. Al Signore quel che è Suo, ai baresi quel che è nostro.

Edito a Bari il 23.11.2011