lunedì 31 dicembre 2007

LETTERA AI FIGLI

Figli miei,

ho trascorso la mia vita in funzione vostra. Quanti momenti travagliati, quanti errori commessi, ma nulla mi ha mai fatto pensare, anche per un solo istante, di vivere senza di voi. Ho lottato per avervi con me, ed oggi sono felice per esservi riuscito. Si può essere ex mariti, ex mogli, ex tutto, ma non esistono gli ex padri e gli ex figli, fortunatamente. Non è molto quel che ho messo da parte, ma di ogni mia cosa voglio che vi pervenga una parte equa a testa. E se, per motivi tecnici, uno di voi dovesse avere una parte indivisibile superiore a quella degli altri, deve provvedere a rifondere il di più ai fratelli in altra maniera. Siate giusti fra di voi, come io lo sono stato con voi tutti. Qualcuno non sarà d’accordo, ma io vi assicuro che vi amo tutti allo stesso modo intenso ed esclusivo. Anche il tempo trascorso nella stessa casa è stato più o meno equo: i più grandi sono andati via di casa creandosi la propria vita, i più piccoli sono rimasti più a lungo recuperando il tempo perduto per essere nati dopo. Ma tutti siete stati, e lo siete per sempre, custoditi con amore nel mio cuore.

redatto a bari il 31.12.2007

LA MATURITA’ DI MIA MOGLIE

Son passati tanti anni e la nostra unione è più salda che mai. Abbiamo attraversato momenti tempestosi, ma nulla è riuscito a dividerci anche per un solo attimo. Al contrario, le traversie ci hanno uniti maggiormente. Il tuo dolce tepore ha temprato sempre più il mio animo. Il calore del tuo corpo riesce sempre ad accendere in me la scintilla primordiale del nostro amore. Ogni volta che ti abbraccio mi sembra la stessa sensazione d’allora. In realtà, provo una felicità maggiore, resa sempre più intensa dall’esperienza che di volta in volta accumuliamo. Amarti è sempre più bello: sì, certo, diminuiscono le frequenze; in compenso aumenta l’intensità e la durata. D’altronde i nostri corpi non sono più snelli come una volta, ma sono sicuramente più capaci. Come la nostra casa che, da piccola che era, è diventata grande, comoda e confortevole.

redatto a bari il 31.12.2007

CIAO PINUCCIO

Caro Pino, Amico mio,
concludere la vita a 53 anni è sempre una disgrazia, ma non per te, non per come hai condotto la tua vita; la vera disgrazia è per noi che abbiamo perso così presto un uomo del tuo stampo. I più disgraziati sono quelli che per cieco egoismo e per basso e falso sentimento pregno di malignità te l’hanno resa dolorosa. Han fatto di te l'innocente vittima sacrificata sull'altare di una sordida storia. Potevi sottrartene egoisticamente, ma da quell'essere superiore che sei sempre stato, hai preferito beneficiare altruisticamente chi non lo meritava affatto. Sei stato padre esemplare; ti sei sacrificato totalmente per i tuoi figli. Avresti potuto mollare tutto, infischiandotene altamente, come altri genitori indegni hanno fatto con i propri figli. Invece tu hai continuato serenamente a svolgere il tuo compito proprio per lasciarli economicamente tranquilli, pur sapendo che, indirettamente, altri parassiti ne avrebbero beneficiato. Proprio per questo chi ti conosceva bene ha pianto a dirotto per averti perduto, i tuoi parenti, i tuoi veri amici, i tuoi cari colleghi. Non hanno versato una lacrima, invece, quelli che hanno avuto anche la faccia tosta, dopo il crimine commesso nei tuoi confronti, di presentarsi alle tue esequie esclusivamente per disgustosi motivi di interesse, l’una per paura di perdere quel che tu hai faticosamente messo da parte, l’altro per continuare a vivere alle sue e tue spalle. Due esseri falliti per la vita. Ho provato vergogna per loro, per la loro totale mancanza di dignità. Sono certo che i due ragazzi abbiano già individuato chi siano stati i veri colpevoli delle tue sofferenze e col tempo, se hanno preso soltanto e solo da te, sapranno anche prendere le giuste distanze da chi ti ha fatto tanto male. Trasformeranno quello che tu hai lasciato in amaro fiele per chi si pascerà dei dolci frutti delle tue fatiche. Ma se i tuoi figli non hanno ereditato i tuoi sentimenti puri, prevedo grossi guai anche per loro, purtroppo. Non si possono godere dolcezze conquistate con la cattiveria, poiché nel tuo caso si è agito con la massima malvagità nel commettere un vero e proprio omicidio bianco: bianco perché nessun codice umano lo condanna ma solo quello Divino, bianco per il candore del tuo animo,
costretto a vedere violentati nei sentimenti figli, nipoti e la tua unica, cara sorella che, solo lei, meritava giustamente di più dei tuoi carnefici. Sono peccati che si pagano; a volte anche in terra, senza aspettare che sia il Cielo ad emettere la Divina sentenza, e con la terribile punizione che meritano. Sono certo che il tuo nobile animo ti ha condotto lì dove si è in grado di sentire la voce del Signore, quindi sai già che così è. Pace a te, caro fratello.

redatto a bari il 28.12.2007

PROFESSOR IORIO

Purtroppo per me, sono uno dei tanti che non ha avuto mai il piacere di conoscere direttamente il professor Iorio perché, impegnato col mio lavoro, rimandavo sempre ad altra occasione. L’esiguità di tempo da dedicare ad attività culturali mi ha impedito persino di inviargli, tramite la sua rubrica, questa lettera da mesi tenuta nel cassetto:

“Caro provessor Iorio, ti leggo sulla Gazzetta da tanto di quel tempo che mi viene spontaneo darti con profondo affetto del “tu”; non ci siamo mai visti, ma i tuoi scritti mi fanno credere di “conoscerti” così bene da sembrare uno dei provessori delle mie scuole di cinquant’anni fa. La vita mi ha insegnato che con gli anni si scordano le cose, perciò bisogna sempre imparare, e tu mi dai questa possibilità. Ti sei accorto che il mio pensiero non è proprio raffinato e la mia penna è grezza; proprio per questo io vedo nei tuoi insegnamenti una fonte pura da cui nutrire lo spirito, e non solo; sto pure rinforzandomi i muscoli con tutta la ginnastica che faccio per stare dietro alla tua “profondità d’intelletto”, ai tuoi molti “neologismi”; infatti per capirti meglio sollevo, trasporto, sposto, sfoglio tanti di quei grossi volumi da farmi dolere braccia e gambe: tu che conosci sette lingue, sei la palestra giusta per irrobustire pensiero e corpo di tanti capatosta. Se mi sono sforzato a scrivere è per dirti: “Non zi dann adenza all crtcand”, ai quali il tuo sapere dà fastidio; è l’invidia che ‘ngi juschk a qualche vann a chidd ciucc prsmus. Sapessi nella vita quanti sbutti si è costretti a subire dagli asini raglianti, anche se tu, con la sola penna, li hai punti tutti. In compenso ci sono tanti alunni di buona volontà che hanno bisogno di te. Io, ad esempio, che so a malapena una lingua, dopo avere imparato le tue sette, ne saprò per otto.”

Pregustavo di già la sua pepata risposta, se avesse avuto voglia di darmela; ma non lo saprò mai, almeno ora. Dovrò aspettare non so quanto ma, da profondo credente, sono certo che me la darà quando ci rivedremo nel posto bellissimo in cui sta ora insegnando ai sapienti.

redatto a bari il 26.2.2007

BJUVE

Sono sempre stato dell’idea che fra i peggiori mali della società italiana sia da annoverare, oltre che Politica e Mafia, anche la Juve. Oggi parlo della Juve. Ho dovuto aspettare di vedere veramente la squadra torinese giocare in B per credere di nuovo in un calcio di autentici valori sportivi; ho temuto sino all’ultimo che lo strapotere juventino colpisse ancora, trasformando per l’ennesima volta i torti in meriti a discapito della Giustizia. Le pretese della nuova dirigenza di lasciare la squadra in A hanno fatto subito pensare che ancora una volta l’arroganza, anzi la tracotanza sino alla protervia dei piccoli Agnelli avrebbe avuto la meglio su tutto e tutti. Fortunatamente così non è stato e spero tanto che ciò indichi l’inizio di un nuovo corso per il calcio italiano, fatto soprattutto di lealtà sportiva. Se questo serve a mitigare il dispiacere degli incolpevoli tifosi juventini, fra i quali conto figli e amici carissimi, non dimentichiamo che altre squadre in passato sono state radiate per aver commesso un nanoatomo delle colpe della loro squadra. Anche i tifosi di quelle squadre hanno sofferto molto, sempre per colpa di dirigenti mascalzoni, di gente che con tutta certezza non ama il calcio. Chi doveva controllare ha chiuso tutti gli occhi, soprattutto quelli della coscienza: molti hanno definito il campionato italiano il più bello del mondo, senza accorgersi che intanto lo scudetto negli ultimi quindici anni ha viaggiato senza soste per ben tredici volte sull’asse Milano-Torino. Ma a qualcuno questa sembra una storia seria, logica, plausibile, visto che ormai in tutti gli sport i valori vanno sempre più livellandosi? Lasciando in pace i tifosi, quindi, e ritornando all’istituzione Juventus, queste le colpe che le vanno imputate nella sua storia centenaria:
- essere stata sino al 1945 anche la squadra dei Savoia, sinonimo di massima potenza all’epoca, anche se di un regno miserello; a riprova ecco due indizi che avvalorano l’ipotesi dell’appoggio reale: Gianni Agnelli impose il lutto al braccio ai suoi giocatori alla morte di Umberto II; impressionante la somiglianza fra l’Avvocato e Vittorio Emanuele IV;
- essere stata dal 1945 ad oggi la squadra della famiglia più potente d’Italia con i conseguenti condizionamenti nei vari settori: uno dei tanti, Garonzi presidente del Verona e concessionario Fiat nei primi anni ‘70; tutti da ragazzi abbiamo tifato per qualche squadra, la metà per quella bianconera, quindi in ogni categoria sociale il 50% tifa Juve; di conseguenza, ogni categoria ha favorito per amore la squadra torinese;
- nel campionato 1999/2000 i favoritismi furono così palesi (fra gli altri, vedere gol annullato a Cannavaro in Juve – Parma), che persino l’Avvocato ne fu talmente disgustato da ordinare ai suoi di perdere la successiva e decisiva partita col Perugina, regalando lo scudetto alla Lazio;
- pretendere l’assegnazione dell’ultimo scudetto, quando la squadra doveva essere in serie C o radiata sin dall’inizio del torneo 2005/06 per quanto commesso dal suo Moggi nel 2004/05: condizionamento dell’unica categoria in grado di modificare un risultato a favore o contro, quella degli arbitri che, in gare dove la squadra torinese apparentemente non c’entrava, espellevano i più forti giocatori di quella squadra che nelle gare successive doveva incontrare la Juve, favorita quindi per l’indebolimento degli avversari; e una volta che gli arbitri entravano nel libro bianconero dei condizionamenti, che necessità c’era di ricordarglielo per le annate successive;
- essere passata indenne attraverso ogni bufera giudiziaria: il calcio-scommesse, i medicinali osè e molto, molto altro ancora.
I grandi Agnelli sono sempre riusciti a dimostrarne l’estraneità con il loro indiscutibile carisma; che i tempi siano cambiati lo dimostra la vicenda attuale, anche se questa volta nemmeno l’Avvocato sarebbe riuscito a salvare la squadra dagli illeciti, dalle frodi, dalla slealtà sportiva in cui i suoi dirigenti dimissionari l’hanno coinvolta.
Ma la colpa più grave che soprattutto io addosso alla dirigenza bianconera, colpa per la quale avevo suggerito di cambiare nome alla squadra per l’indelebile macchia che ne ha oscurato per sempre la sua storia, è stata perpetrata fra le ore 18,30 e le 20,30 del 29 maggio 1985 in quel di Bruxelles fuori e dentro lo stadio Heysel, quando gli Agnelli, incapaci di esercitare il loro carisma in Europa come lo facevano in Italia, pur di conquistare la loro prima coppa campioni, fecero scempio delle 36 vittime, loro tifosi e fratelli dei tifosi di tutte le squadre, calpestando i loro corpi caldi con tacchetti e sfera di cuoio, intingendo quella coppa nel loro sangue fresco. Molti ebbero il cinismo di festeggiare quella vittoria alla stregua di una battaglia da bassissimo medio evo; pochi ebbero il coraggio di accettarla come la sconfitta più grande della loro vita, fra questi ultimi ricorderò sempre il sincero Boniek. Gli Agnelli non hanno mai rinnegato quella coppa maledetta; eppure dovevano coglierne i segni nelle tante sventure che hanno colpito la famiglia; personalmente avrei donato cento scudetti alla Juve pur di salvare uno solo degli Agnelli.
Ecco perché oggi si paga: simili peccati prima o poi si devono sempre pagare. E per finire, propongo ancora alla nuova dirigenza di cambiar nome alla squadra: meglio un nuovo nome per un’altra storia, perchè Bjuve è proprio brutto.
redatto a bari il 8.9.2006

CALCIO VERGINE

Dopo tanto calcio sporco, alla fine una nota di purezza: decaduta la Grande Signora, in A è rimasta immacolata soltanto la Signorina Grande a cui, per meglio proteggere la verginità, hanno dato uno scudetto usato, donandole anche un bel record, il titolo di “campione d’italia” (titolo minore, iniziale minuscola) con il punteggio più basso della storia. Dalla vergogna al ridicolo.

redatto a bari il 28.7.2006


LA MAGLIA DI GULLIT

Come ogni anno, ormai consolidata tradizione, anche alla fine dell’ultimo campionato di calcio c’è stato il lancio delle maglie verso gli spalti. Quest’anno, però, mi è toccato assistere a quel che succede dopo, fra i tifosi, per conquistarsi il ricordo del proprio campione.
Trenta maggio 1993. San Siro ore 17,45. La partita è appena finita. I rossoneri festeggiano la conquista del tredicesimo scudetto, girando a bordo campo. Si fermano in curva, invocati dalla fazione più calorosa dei milanisti. Fra le teste dei giocatori le treccine di Gullit spiccano come neri vettori. L’olandesone si sfila la storica maglia numero dieci. Indietreggia per una breve rincorsa e lancia l’ancor vaporoso cimelio verso un gruppo già pronto a lottare per conquistarsi il simbolo di un’epoca.
I supini raggi solari, proiettando le lunghe ombre del tempio calcistico sulla multicroma folla festante, riescono a trovare un pertugio nella tribuna, illuminando, come intenso riflettore, la scena della imminente mischia, ancor meglio di quel che avrebbe potuto fare il più esperto dei registi. La maglia lanciata dalle possenti mani nere vola appallottolata verso una selva di ansiose mani tese.
L’estemporanea palla rossonera esplode improvvisa, come un fiore che sboccia nell’azzurro del cielo crepuscolare. Le maniche si stendono opposte simili a lunghi petali. Il dorso della casacca si apre scoprendo al centro un candido dieci, che il riverbero del sole morente lo fa più luminoso. Il glorioso indumento rallenta il volo, si ferma in stallo, plana poi dolcemente verso il gruppo in fremente attesa. Ondeggia, costringendo la folla ad ondeggiare. Cercando di cambiarne la destinazione, i più forti spintonano il gruppo. Ma non c’è nulla da fare; è già deciso. Con un ultimo scarto la maglia s’adagia su cinque coppie di artigli pronti ad afferrarla.
Una ragazzina e quattro uomini lesti la celano, la scoprono, la tendono. Percepita l’impossibilità di inserirsi nella zuffa, tutti gli altri s’allontanano. S’iniziano le schermaglie decisive. Un signore vestito di blu, con il collo della camicia bianca aperto e la cravatta scura slacciata, tira una manica; le tempie striate di grigio, una rada corolla di capelli neri intorno al cranio, calvo in cima, due occhietti spiritati, ha l’aspetto del tradizionale impiegato statale. All’altra manica è attaccato un giovane dall’aria decisamente professionale; meno di trent’anni, occhi azzurri, riccioluto e biondissimo, camicia di seta, jeans firmati e mocassini. Mezza spalla e il colletto del trofeo conteso sono fra le dita sottili ma forti di un giovanotto dall’evidente spirito studentesco; corvina e folta la lunga chioma. Un energumeno, alto forte robusto, i capelli castani a spazzola, abbigliamento e sembianze da lavoratore di braccio, stringe il busto della maglia, coprendo in parte il mitico numero dieci con la larga sinistra callosa chiusa a pugno; la destra, intanto, sospinta dal braccio muscoloso, distribuisce equamente vigorosi spintoni. Al lembo inferiore sono abbarbicate le piccole mani dell’unica donna la quale, più che impossessarsi della maglia, sembra ne sia posseduta come in un esorcizzante ballo di San Vito; i suoi lunghi capelli rossi ondeggiano dappertutto, simili a fiamme nella vorticosa tempesta intorno a lei. E’ la sola in balia degli eventi.
Il primo a mollare è il funzionario statale dopo una poderosa spinta dell’energumeno. La manica appena liberata cade subito preda delle svelte mani dello studente. Poco importa all’energumeno, perché nel suo improvvisato piano di battaglia ha previsto di liberarsi prima di chi può dargli più fastidio; costringere, poi, i due ragazzi alla resa sarebbe stato un gioco.
Rivolge il secondo attacco, perciò, contro il professionista. Cerca dapprima di aprirgli le dita in cui è stata arrotolata, intanto, la manica destra. Non riuscendovi e accortosi che anche l’avversario possiede una bella forza, passa a menare spintoni energici per fargli perdere l’equilibrio e così mollare la presa. Inutile anche quest’attacco, sta per passare ad azioni più distruttive, quando s’accorge con stupore che l’antagonista è stato costretto a mollare la presa per prendere istintivamente al volo il suo costoso orologio, che aveva perso un asse del cinturino per i continui strattoni. Il professionista, recuperato il prezioso, s’allontana imprecando. Approfittando della indifferente ma volontaria distrazione dell’energumeno, lo studente s’impossessa agile dell’altra manica. Ora la maglia è per molto meno della metà nelle sue mani; la gran parte è nella sinistra dell’energumeno, tranne il lembo inferiore dove, tenacemente avvinghiata, s’aggrappa ancora la ragazzina. Fa tenerezza.
Le sue possibilità di conquista sono nulle; come d’altronde pochissime sono le chances dello studente. Infatti, certo di aver superato gli ostacoli più duri, il viso dell’energumeno si rilassa in una smorfia di trionfo. Con le fronti ricamate da gocce di sudore che, scivolando lungo le guance arrossate, si sperdono nei colletti delle magliette in rivoli sotterranei, tre paia d’occhi si fronteggiano. Il primo dilatato dal piacere dell’imminente vittoria, il secondo illuminato da viva intelligenza, il terzo spaurito. All’ennesimo strattone le mani sottili della ragazzina perdono la presa sul tessuto. Stanca ma non vinta, si scosta di pochi passi, rimanendo seduta sul gradone a seguire la conclusione della conquista.
Un ghigno che vorrebbe essere un sorriso fa esplodere una forza animalesca, che l’energumeno riversa nell’ultimo atto. Grugnisce, si agita, scuote l’avversario dall’una all’altra parte, in avanti poi indietro. Lo solleva per un istante e lo lascia ricadere l’attimo dopo. Sembra che l’impari duello debba concludersi da un momento all’altro; frazioni di secondo e dovrebbe essere fatta. Ma lo studente, intanto, non molla. Usa le braccia come ammortizzatori. Non si oppone a quella forza della natura; anzi, accondiscende con lucidità ad ogni brusco movimento dell’altro nel tentativo, inutile in apparenza, di sfinirlo. La presa, comunque, è sempre ben salda. I rivoli di sudore s’ingrossano sino a rendere entrambi fradici. I dieci sensi sono attivamente all’erta, le due menti in contrastante riflessione, le quattro braccia ferme per una breve pausa; sembrano pilastri di cemento quelle dell’energumeno, cavi d’acciaio puro le braccia dello studente. La lotta riprende. Sembra bella, interminabile, invece il tutto dura solo da una manciata di minuti. Non c’è mai stata violenza pura. Ognuno ha usato i propri mezzi nei limiti della lealtà soggettiva. La breve pausa ha dato linfa rinnovata all’energumeno che riparte con accanimento. Pur avendo speso indubbiamente di più, ora è deciso a metter fine allo scontro, a conquistarsi definitivamente il cimelio. Lo studente continua ad opporre resistenza passiva ma, tuttora con energie fresche, la conclusione sembra segnata. Quando quasi tutta la maglia, bagnata ora anche del sudore dei campioni sconosciuti, è nelle mani sicure del più forte, accade l’imprevisto. La ragazzina, scattata dal sit-in che s’è imposto e aggirando le spalle ampie dell’energumeno, ormai esausto, gli infila le sue delicate manine sotto le capaci ascelle provocandogli un frenetico solletico, che in breve lo costringe a mollare completamente la sua faticosa conquista. Veloce lo studente afferra la maglia di Gullit e corre via, subito raggiunto dalla ragazzina. L’energumeno si riprende all’istante. Pronto a scattare per inseguirli, rinuncia vedendoli abbracciati far scomparire tra loro l’insperato trofeo. Capisce che quella maglia era già stata destinata, quando scorge allontanarsi, illuminate dall’ultimo sole, le due teste unite, l’una rossa e l’altra nera.
Dedica dell’autore
A Gullit e agli altri 10” della storia rossonera: dai primi pionieri, passando per Green e Liedholm, per Schiaffino, Grillo e Rivera, sino ai giorni nostri. Un grazie riconoscente per le tante gioie che ci hanno donato. Onore agli “Imbattibili di Fabio Capello”.
Una dedica riconoscente da chi tifa MILAN da una vita.

redatto a bari il 30.5.1993

IL GRANDE MAMMUTH

PROLOGO
Accade di frequente, a chi è genitore, che la sera i figli più piccoli non riescano a trovare facilmente sonno. Ci si sforza utilizzando vecchi metodi, se ne sperimentano di nuovi per cercare di addormentarli. Seduti ai loro piedi, cogliamo con sollievo i primi segni premonitori del sonno imminente nell’altalenante movimento delle palpebre, ormai pesanti. Quando siamo certi che Morfeo sta per accudirli per qualche ora e cominciamo ad assaporare il piacere di calarci nell’atmosfera di pace, diventata l’ultima parte della sera senza la loro chiassosa presenza, ecco che inaspettata la loro vocina ci impietrisce. Gli occhietti tornano vispi, la temuta domanda “Papà, mi racconti una favola?” ci paralizza. A me è capitato più volte. Ricordo bene qualche sera fa; ero riuscito a far addormentare la mia bambina con un’arcaica nenia barese. Mi accingevo in punta di piedi a lasciare la cameretta, quando quella richiesta mi ha pugnalato alle spalle inchiodandomi al mio “dovere di padre”. Non che me ne volessi sottrarre, ma l’idea di ripeterle per l’ennesima volta una delle tante notissime storielle già mi procurava nausea. Il lieve sgomento mi ha causato un brivido lungo il filo dorsale e, vinto un passeggero capogiro, mi sono riseduto sul lettino controvoglia. Ho iniziato dapprima a passare in rassegna i libri di favole sul comodino. Il solo leggerne i titoli, che conosco da una vita, mi ha fatto proprio star male. Un atlante geografico spiccava per la sua diversità fra quei libri. Giusto per prender tempo e sperare in uno degli imperscrutabili misteri che regolano il sonno dei bambini, facendolo giungere quando meno ce lo aspettiamo, ho preso a sfogliarlo di malavoglia.
- “Che libro hai preso, papà?”
- “Non è un libro; è un atlante.”
- “Ma sembra un libro. E cos’è un atlante, papà?”
- “E’ un libro …. “
- “Avevi detto che non è un libro.”
- “Cioè, è un volume in cui sono disegnate le mappe di ogni nazione del nostro pianeta.”
- “E che cosa sono un volume, le mappe, ogni nazione, nostro pianeta?”
Perline di sudore hanno preso a scorrermi giù sino al fondo schiena. M’ero cacciato in trappola; il classico ruzzolone nella brace. Ero fermo a guardare angosciato la cartina dell’Europa quando la vecchia lampadina, a volte spenta anche per anni, è venuta in mio aiuto illuminandomi. Vedendo con attenzione i contorni del Mediterraneo, l’ispirazione appena nata mi ha suggerito una favola nuova, inventata lì per lì.

IL GRANDE MAMMUTH

Moltissimo tempo fa Panthalassa, l’unico oceano allora esistente, abbracciava felicemente Pandea, la terra emersa, unica anch’essa. Su quell’immensa isola vivevano, non altrettanto felici, donne e uomini. Non era quella l’intenzione del buon Dio al momento della Creazione. Solo dopo la disobbedienza di Eva e per punire gli uomini, Egli si costrinse a trasformare quell’unico enorme continente da Paradiso Terrestre a Valle di Lacrime, nella quale cominciarono a vivere gli esseri umani, condannati per sempre alle terrene sofferenze. La popolazione, intanto, cominciò a crescere sempre di più; iniziarono a sorgere paesi sia sulla costa che all’interno della terra emersa, ma in tutte le località gli abitanti continuavano a essere infelici. L’infelicità di quelli che vivevano lungo le coste dell’immensa isola era causata dalla paura che l’infinita distesa delle acque incuteva nei loro animi ancora semplici. Molti avevano tentato d’avventurarsi in mare aperto, vinti più dalla sete del sapere che dal reale bisogno di solcare quelle acque che si sperdevano nell’ignoto. La maggior parte di loro tornava immediatamente a riva salvandosi; la paura era stata più forte della voglia di conoscere. Chi sceglieva di inoltrarsi in quel mare senza fine, per disgrazia non faceva più ritorno; la morte era più forte di tutto. La morte è sempre la più forte, paziente ma invincibile. Peggiore era la sorte degli abitanti dell’interno, il “retro”, come i marinai dell’epoca chiamavano i paesi che non si affacciavano direttamente sul mare. Furono proprio loro a coniare i termini “retrivo”, “retrogrado”, riferendoli agli abitanti delle zone interne, cavernicoli, valligiani, montanari o altro che fossero; gente ancora più involuta di quella costiera per gli ostacoli naturali che riducevano di molto il loro orizzonte, limitato com’era da caverne, boschi, montagne, colline. I motivi erano più che sufficienti per rendere tutti infelici; lo sgomento dell’immenso frenava l’impellente bisogno di progredire dei marittimi; i retrogradi, inconsciamente impediti a vedere oltre la punta del proprio naso, accettavano con fatalità la loro misera condizione. I dubbi e le paure del mondo primordiale limitavano molto l’evolversi di quegli animi primitivi. Quella situazione non andava a genio nemmeno al Signore che, perciò, decise di risistemare geograficamente Panthalassa e Pangea, rompendo soprattutto la monotonia della biblica spartizione fra Terra e Acqua. Senza più indugiare, a passo spedito superò l’Archivio Universale delle Anime dove era sistemata la Prima Divisione, nella quale erano raccolte un numero grandissimo di cartelline con il solo foglio del Giudizio Irrevocabile di ogni anima defunta. Attraversata la grande Sala del Giudizio Irrevocabile, si fermò nella Seconda Divisione, il Laboratorio delle Opere Umane, dov’erano sistemati i fascicoli, più o meno grandi a seconda del caso, degli esseri viventi che al momento popolavano la Terra. Le due Divisioni erano dilatabili a dismisura; al principio la seconda era molto più ampia della prima per il semplice fatto che il mondo dei più era quello terreno; Anime Maestre affollavano il cammino, tenendo per una mano l’ultimo arrivato e nell’altra il suo fascicolo. Ritirata la cartellina col foglio del Giudizio Irrevocabile, che stabiliva in quale dei Sette Cieli l’anima appena giudicata sarebbe finita, il fascicolo veniva portato al macero per così riutilizzare la sua energia a Insindacabile Parere Divino. C’era infine una Terza Divisione, grande senza limiti, Dimensione delle Anime Assegnate, in cui erano stipati a perdita d’occhio un numero infinito di Registri. In quei capaci volumi erano elencati solo nomi e date dei futuri esseri umani in ordine strettamente cronologico. Ad ogni nuovo concepimento, nella Seconda Divisione veniva creato il fascicolo del relativo passaggio terreno. Da quell’istante i singoli fascicoli cominciavano a crescere più o meno voluminosamente in rapporto alla durata del passaggio e delle opere compiute. [Dopo la cacciata dal Paradiso, il Signore decise di disinteressarsi delle faccende umane nella loro parabola terrena e, per aggravarne la pena, di concedere agli uomini il libero arbitrio regolato dalle Sue Leggi eterne, infallibili e note a tutti, stabilendo la riconquista del Paradiso perduto per chi le rispetta. Ogni individuo ha la libera facoltà di conquistarsi il Settimo Cielo o di condannarsi al Cielo più infimo; nascendo si ha l’obbligo di sviluppare al massimo la propria coscienza, sempre seguendo la Legge del Signore. Non riuscendoci, una volta davanti a Lui, il Giudice Supremo ci restituisce quella parte di coscienza di cui ci si è privati sulla Terra, in modo che ogni individuo riesca a capire perfettamente gli errori commessi e, di conseguenza, il Cielo a cui si è destinati; più coscienza si è persa per strada, più è basso il Cielo d’appartenenza. Infatti, gli autori dei delitti più disumani vengono volgarmente definiti “Uomini senza coscienza”. E nel Cielo Infimo, reintegrati della piena coscienza, essi sono condannati a soffrire pene atroci nel rivedere, in presenza di tutti e senza più falsi alibi, i crimini commessi, provando in eterno le stesse sofferenze patite dalle loro vittime. Altro che Inferno; le sofferenze fisiche, alla fin fine, sono lenibili in qualche modo; quelle dell’animo, invece, sono insopportabili. La differenza noi mortali la conosciamo molto bene, supportati come siamo dalla struttura fisica; figurarsi nel mondo dello Spirito puro, in cui tutto il peso dei nostri peccati deve essere sopportato dalla sola anima.] Dunque, Nostro Signore, mentre controllava l’andamento del proprio Creato e ricercava nel Laboratorio delle Opere Umane quel che Gli interessava, non tralasciava mai il Suo ruolo principale di giudicare ogni anima che si presentava al Suo cospetto. Egli è sempre stato Trino, anche se a noi uomini ha manifestato questa Sua Virtù tanto tempo dopo. Preso l’elenco dei fascicoli della Seconda Divisione, quindi, cominciò a scartabellarlo per ricercarvi un nome. Naturalmente non aveva bisogno di consultare alcunché, conoscendo bene vita, opere e morte di ogni essere terrestre; solo che Gli piaceva, di tanto in tanto, assumere atteggiamenti a immagine e somiglianza di quell’essere che Lui stesso aveva creato da un pugno di polvere e uno schizzo di saliva. L’Indice Divino scorse veloce lungo l’elenco sino a fermarsi sul nome cercato. Italo il nomade. Pangea centrale, pastore di mammuth, corporatura e altezza eccezionali per i tempi, trentatreenne; un numero evidentemente caro al Signore. Per fare quel mestiere Italo doveva avere un carattere molto mite, perché quei bestioni erano facilmente irascibili e solo una persona dall’animo buono li teneva facilmente a bada. Dalla voce di un uomo i mammuth riuscivano a percepire quella della sua coscienza, molte volte così fievole da essere captata solo grazie ai loro enormi orecchi. Il Signore lesse le note caratteristiche di Italo, avendo conferma di quel che già sapeva. Lo chiamò. Grande fu la sorpresa del mite pastore, mentre era in santa pace intento alle quotidiane fatiche nella tranquilla e verde valle natia, nell’udire quella Voce soprannaturale. Non aveva mai udito prima una voce tanto potente, ma non ebbe timore, tranquillizzandosi nel vedere con quale calma i mammuth guardavano il cielo con le sventole tese ad accogliere serenamente la medesima Voce. Perciò, anch’egli si predispose ad ascoltare.
- “Italo …. AscoltaMi. Sarai parte di un progetto che permetterà a tutti gli uomini di essere meno infelici; per questo ho bisogno della tua vita e di quella del tuo mammuth più grande. Il vostro sacrificio Mi servirà a creare un popolo migliore. Dopo esserti protetto con copricapo, busto e stivaloni lunghi sino all’inguine, forgiati col cuoio più duro, monta l’animale prescelto e conducilo al centro della Grande Vallata. Là attendi ch’Io completi l’opera. Il vostro premio sarà il Settimo Cielo, e sulla Terra nessuno dimenticherà più il tuo nome e il tuo mammuth.”
Il placido Italo non aveva mai detto di no nella sua vita. A nessuno. Era, come già detto, il più buono degli uomini. Sempre pronto a soccorrere ogni essere in difficoltà: aveva un fratello gemello; l’altruismo e il senso del giusto erano tanto innati in lui che da piccolo, nutrendosi del latte della madre, sentiva istintivamente quando smettere per lasciarne la giusta metà al fratello. E dal momento che fu in grado di reggersi non smise mai di offrire il suo aiuto a chiunque. Nel momento più importante della sua vita, quindi, non ebbe nessuna esitazione di donarla al Signore e di rispettarne la volontà anche per la sorte del suo animale. Mentre il Supremo si apprestava a realizzare quel progetto rivoluzionario Italo, come gli era stato suggerito, protetto dalla corazza di cuoio e in sella a Medi, il capobranco, il più grande dei mammuth, si portò al centro della vallata e attese. Era intento ad ammirare per l’ultima volta, serenamente, i luoghi che l’avevano visto diventare uomo, quando notò improvvisamente il paesaggio a lui tanto familiare cambiare aspetto. Le montagne divenivano sempre più piccole, la vallata sempre più stretta. Capì subito, guardando in giù, che non erano montagne e vallata a ridursi, ma lui e Medi che s’allontavano. Stavano volando. Ciò che gli sfuggiva fu il particolare che, salendo, crescevano. Si ingigantivano, diventando sempre più enormi, immensi. Le loro proporzioni, però, restavano inalterate, impedendo a Italo di accorgersi della stupefacente metamorfosi che stavano subendo. Ebbe soltanto la certezza che quel volo impossibile era opera del Sommo. Ne fu felice. A un certo punto, raggiunsero un’altezza tale che Italo poté vedere, primo uomo dalla Creazione, che Panthalassa e Pangea formavano insieme un corpo perfettamente sferico. In quel momento l’ascesa si arrestò. I loro corpi, intanto, avevano raggiunto le dimensioni progettate dal Divin Architetto. Fermi per pochi attimi in quell’inerzia solenne, fecero a ritroso il percorso che li aveva condotti a quell’altezza. La caduta diveniva sempre più veloce; tanto vertiginosa da indurre Italo a credere di essere fermi, e che fosse la palla di terra e acqua a correre loro incontro, sempre più grande. La discesa raggiunse una velocità tale da strappare le loro anime che, libere dei corpi, ripresero a salire, ora dolcemente, verso il Signore, accolte, infine, amorevolmente fra le Sue capaci braccia. Intanto i corpi, abbandonati al loro destino, ma da Lui guidati con esperta mano, continuarono la folle caduta verso il centro esatto della Pangea. Alla distanza voluta, Egli impresse alle due figure una lieve rotazione, costringendole ad atterrare di fianco con gli occhi volti verso il tramonto. L’impatto fu di una violenza terrificante, riproducendo un “bang” che Gli ricordò l’altro simile udito alla Creazione dell’Universo. Aspettò con calma proverbiale il dissolversi del nuvolone che avvolgeva il pianeta. Tornata nitida la visibilità, il Padreterno si soffermò ad ammirare la grandiosa opera, compiacendosene. La tremenda scossa aveva prodotto un enorme cratere in cui masse inarrestabili di acqua si riversavano da una spaccatura a occidente. La Pangea non esisteva più; dov’era la grande vallata, ora dominava quel cratere a forma di mammuth in volo. L’acqua lo riempì, riportando a galla il lungo stivale sinistro di Italo che si saldò a nord con la terraferma, proprio al limitare delle alte montagne che circondavano la vallata, e al di sotto col fondo marino che s’innalzò per sostenerlo. Dei corpi non v’era più traccia, come se non fossero mai esistiti. Ma quel cratere a forma di mammuth con lo stivale in groppa dimostrava concretamente il loro passaggio terreno. L’impatto, inoltre, aveva creato delle abissali fratture lungo i punti più deboli della Pangea, staccandone una massa enorme che andò alla deriva verso occidente; una miriade di terre piccolissime si estese a oriente, mentre grandi isole si spostarono più a sud. Frammenti infiniti si sparsero per tutta la Panthalassa. Rimirata a lungo la nuova sistemazione, il Signore dette nuovi nomi ai luoghi appena creati. Chiamò Mare Medi, dal nome del grande mammuth, il cratere riempito dall’acqua. Seguendo la costa modellata dalla sua sagoma, il punto in cui l’acqua aveva invaso il cratere fu chiamato Stretto del Naso Lungo; risalendo verso nord, i due Golfi ebbero i nomi di Lobo Destro e Lobo Sinistro; i frammenti di terra circondati dal mare si chiamarono Isole degli Occhi, Isole del Padiglione, Isole del Cuore, Isole di Coda. In onore di Italo il Signore chiamò Italia lo stivalone al centro del nuovo bacino. Le città che poi sorsero attorno ad esso costituirono lo Stato del Grande Mammuth e i suoi abitanti si chiamarono Fratelli del Grande Mammuth. Non più limitati dalle montagne, non più angosciati dall’oceano infinito, essi trovarono il giusto equilibrio nei precisi punti di riferimento dei nuovi orizzonti per raggiungere la felicità perduta. Intanto, invidiosi per tanta bellezza e ricchezza, dal nord cominciavano a calare i barbari……

EPILOGO
La mia bambina era ancora sveglia e continuò a tempestarmi di domande. Naturalmente, non fu così semplice, come sembra, terminare la bella favola. A ogni nuovo vocabolo venivo interrotto e mi era impossibile riprendere se prima non le spiegavo alla meno peggio il significato. Ancora più difficile mi riusciva spiegarle interi concetti che, sorprendentemente, lei afferrava al volo. Senza dubbio per “colpa” di quel retaggio mediterraneo che ancora oggi ci contraddistingue. Pur se estenuato dalle domande e dall’ora tarda, mi riuscì alla fine di portare a termine la storia, ma non di raggiungere lo scopo che il racconto fantasioso doveva cogliere. La bimba era più sveglia di prima; l’unica consolazione, se non altro, era quella di averle insegnato a sollecitare la fantasia. Insomma, per riuscire a farle prender sonno, sono tornato al vecchio sistema della ninnananna. E questa volta finalmente, mi lasciò alla pace delle ultime ore serali. Andato a letto, sfinito com’ero, mi addormentai all’istante, sognando lo stesso sogno della mia bambina. Il Grande Mammuth.

redatto a bari il 30.4.1987

venerdì 30 novembre 2007

PENA DI MORTE

Inciviltà è mantenere la pena di morte, secondo alcune associazioni pro-Caino. Inciviltà è anche mantenere in vita cellule cancerose, aggiungo io. Giunta a questo punto la stupidità umana, abolire per abolire, affermo che si dovrebbe vietare ad ogni chirurgo di spegnere la vita anche di quelle inutili cellule assassine che insaziabilmente, sin dai tempi di Caino, si nutrono delle più utili cellule sane che compongono il tessuto del corpo umano. L’equazione cellula/corpo umano e uomo/umanità ci dice che in entrambi i casi stiamo parlando dell’unità rapportata al tutto di cui è parte; pertanto, in entrambi i casi la pena di morte a carico delle unità killer andrebbe abolita. Di questo passo quindi, e secondo una certa mentalità corrente, l’abolizione della pena di morte sarebbe da praticarsi in assoluto: niente più operazioni per estirpare cellule killer che chiedono solo di vivere, anche se a discapito della parte integra che le contiene; niente più bolliture di alimenti e attrezzi per eliminare batteri e virus. Sempre alla luce di quella mentalità che privilegia ogni deleterio essere vivente nei confronti dell’uomo di sani principi, si pensi alle sofferenze di questi minuscoli organismi quando li sottoponiamo ad ogni genere di tortura per eseguire la loro condanna a morte. Se non è giusto per l’essere umano, non sarebbe altrettanto giusto per ogni forma di vita. Il diritto a vivere è di chiunque si muova di energia propria, anche se invisibile. Non sappiamo ancora in quale dimensione sia giusto decidere dell’altrui destino, se nel nostro cosmo, nel microcosmo o nel macrocosmo. Intanto dico che dobbiamo per il momento interessarci della nostra dimensione, nella quale è dimostrato che l’uomo pensante è superiore ad ogni altra forma vivente. La stupidità umana, ogni volta rapida a schierarsi col prepotente Caino a danno degli Abele sempre più indifesi, emerge in tutta la sua grandezza proprio quando l’uomo non si pone nella condizione di sapere usare il proprio intelletto nello scindere il bene dal male. Non sono affatto favorevole alla pena di morte, ma da questo a schierarsi con feroci assassini c’è un vero e proprio abisso. Stiano perciò tranquilli gli spalleggiatori di Caino che noi uomini civili non vogliamo neanche sfiorarlo. Toccare Caino ci fa proprio schifo. Va al di là di ogni nostra comprensione, invece, il comportamento degli associati al club “Caino for ever”. Come si possa parteggiare per esseri abietti, esseri che hanno inferto sofferenze inaudite a uomini inermi, donne indifese e, soprattutto, bambini innocenti, per noi che possediamo intatta tutta la sensibilità umana ci sarà per sempre incomprensibile. Che non siano mandati a morte è un fatto di civiltà, ma che si arrivi all’assurdo di non assicurare loro una pena certa è da pazzi. Quanti assassini sono attualmente liberi di continuare ad ammazzare per l’insipienza di leggi permissive e di giudici senz’anima, che si limitano ad applicarle meccanicamente divenendo loro complici quando i Caino perpetuano i loro crimini. Nessuno vuol toccare Caino, ma Caino continua a “toccare” tutti noi. Pensare a quelle mani indelebilmente insanguinate ci chiediamo come possa continuare a vivere un uomo che ha soppresso un proprio simile, dove possa trovare la pace necessaria per riposare la notte. Che vita di sofferenze chiusi per sempre in quella gabbia di dolore che diventa il senso di colpa. E’ già di per sé un’atroce condanna a vita per i rei che riacquistano un briciolo di coscienza. Ma per chi ha perso ogni sentimento umano non vi sarà mai pentimento che li faccia ravvedere. E lasciarli liberi di continuare ad ammazzare innocenti è pura inciviltà. E’ voler costringere l’uomo indifeso a convivere con belve feroci. Si dice che la pena di morte non ha mai fermato i criminali; ma se non hanno paura della morte di che altro possono temere se non di una cella sino a quando non hanno perso zanne e artigli, buttando anche via la chiave nei casi irrecuperabili. La tendenza odierna, purtroppo, è di vedere che in Italia non si mandano in carcere assassini inveterati e, addirittura, vengono premiati gli autori di reati minori. Questa mentalità sta incrementando proseliti soprattutto fra i più giovani e i risultati deleteri sono sotto gli occhi inorriditi di tutti. Se non ci si attiva immediatamente per invertire bruscamente questa criminosa tendenza che dilaga sempre più, saranno grossi guai per tutti. Voglio poi vedere le reazioni dei Cainisti quando saranno direttamente “toccati” dal proprio idolo nelle loro persone più care. E’ tempo quindi di pensare che solo attraversare col rosso può costare caro, figurarsi fare di peggio. E’ l’unica diga che può arrestare energicamente la piena criminale, nostrana ed esotica, che rischia di travolgere tutto e tutti, riportandoci in tempi dominati dall’assoluta inciviltà umana. Teniamo bene a mente che chi provoca la morte di un proprio simile, per qualsiasi motivo, è già condannato alla pena eterna che nemmeno il Signore può evitargli. Non vi può essere perdono per tale crimine, né terreno, né celeste.

redatto a bari il 30.11.2007

mercoledì 31 ottobre 2007

ITALIANI CINQUE

Italiani, avrebbe detto il Mazzini; Giovani Italiani, il peso maggiore della lotta ai neomonarchici graverà soprattutto sulle vostre spalle. Noi, a dispetto di quello che pensa di voi il signor Schioppa, riponiamo la massima fiducia nelle vostre ancora intatte energie fisiche, e soprattutto nelle morali. Se le nuove norme verranno recepite, assorbite e attuate, sarà vostro il merito. Ne va del vostro futuro. Forza, dunque, a farvi apostoli delle libertà individuali, dei diritti di tutti, in nome della Uguaglianza, della Giustizia e di un’Italia Repubblicana, Democratica, Comunale.

PROGETTO PERPETUO DI UOMO POLITICO
(seconda parte)

  • Riforme per un’Italia veramente Repubblicana, realmente Democratica, radicalmente Comunale I

a) Modifiche strutturali
5) Abolizione dell’attuale figura simbolica del Presidente della Repubblica, di quel ring nominato Camera dei Deputati, dei Senatori a vita, delle inutili Province, delle circoscrizioni cittadine, e di tutti gli enti improduttivi.
6) Trasformazione di partiti e sindacati, ormai surrogati dei primi politicizzati come sono, in associazioni dei senza pensieri autofinanziate.
7) Il periodo di maggior splendore per l’Italia, superiore anche a quello dell’antica Roma, è stato quello dei Comuni. Che rigoglio di attività il Rinascimento. Cosa non è stato fatto di grande in quel fertile periodo. Fermento vivido di arti, scienze, lettere, edilizia monumentale, ricchezza sociale, politici illuminati che incrementavano con le proprie sostanze lo sviluppo economico delle città, per averne non solo un ritorno maggiore da redistribuire, ma fama e rispetto nei confronti di città concorrenti. Fare a gara per produrre di più e meglio è stato il vero segreto dell’età Comunale. Piccolo si è sempre detto che è bello, ma non solo, è anche pratico. Piccolo è anche più facilmente controllabile. Infatti, proprio perché di facile controllo, balza anche agli occhi dei più sprovveduti la ridicola, insana situazione attuale di quel comune i cui amministratori, a fronte di una cinquantina di abitanti, hanno la sfrontatezza di schierare un organico di ottanta dipendenti. Pazzesco; da manicomio criminale. Per questi robusti motivi è necessario ritornare all’Italia dei Comuni; sani come quelli rinascimentali, senza l’asfissiante burocrazia, ma con la necessaria variante di una maggiore frammentazione della ricchezza pro capite.
8) Nomina di un’Assemblea Costituente per l’abrogazione di quegli articoli rigidi dell’attuale costituzione i quali, come tutte le cose troppo rigide da demolire, contengono in sé i prodromi della rivoluzione, quindi della violenza. Sotto l’influenza dell’antifascismo, si è dato vita ad una costituzione di parte che impedisse sul nascere la figura di un altro Mussolini. In pratica, invece, essa non ha fatto altro che essere causa della rovinosa proliferazione di tanti piccoli Mussolini, i quali sono tutti da abbattere senza indugio e immediatamente.
9) Approvazione della Nuova Costituzione Italiana, modificata e integrata da norme plasmabili al variare dei tempi e col preciso intento di istituire referendum popolari propositivi; va introdotta fra i primi articoli della Carta l’inviolabilità dei sette diritti fondamentali dell’uomo: libertà, abitazione, alimentazione, ambiente, lavoro, assistenza, denaro; non viene dimenticato un altro fondamentale diritto inalienabile dell’uomo, la giustizia, ma se questo progetto viene recepito, esso si applicherà spontaneo in ogni umana controversia;
b) Denaro
10) E’ conseguenza logica inserire il denaro nei sette diritti fondamentali dell’uomo, perché il solo mezzo con cui acquisire gli altri sei. Consideriamo per un attimo uno di questi, l'alimentazione; è un bene che per praticità di approvvigionamento è stato trasformato convenzionalmente in denaro, senza il quale, perciò, non è possibile per l'uomo esercitare il proprio diritto inalienabile alla nutrizione; ed ecco perché il denaro, surrogato degli altri sei, diventa un bene fondamentale per ogni comunità. E' colpa gravissima, religiosa e civile, pensare ingiustamente che esso sia un mezzo per fare la carità. E' da ciechi egoisti, e anche poco dignitoso per chi offre e per chi è costretto ad accettare. Approvazione, quindi, di una legge che definisca tutto il denaro circolante nello Stato un bene pubblico e il cui corso deve essere sempre inarrestabile; un mezzo su cui tutti hanno il diritto di viaggiare e di cui tutti devono usufruire a seconda delle personali capacità nel lavoro privato; su basi prestabilite nel lavoro pubblico, nel quale vanno annoverati tutti i politici di enti e istituzioni nazionali e locali. Politici, quindi, equiparati a funzionari dello stato secondo livelli di categoria e qualifica. La circolazione costante del pubblico denaro è principio di igiene finanziaria, di sana ossigenazione economica. Chi ne impedisce il regolare scorrimento nelle anse dei portafogli di ogni cittadino commette reato, che andrà meglio regolarizzato con apposita legge. La linfa vitale che alimenta ogni mercato al mondo non può essere appannaggio di pochi che, accantonandola, ne causano l’essiccazione che tutto marcisce; si rischia la morte per asfissia dello stesso mercato. Il pubblico calderone è l’immaginario forziere in cui tutti i cittadini depongono i propri soldi per una oculata e giusta amministrazione del Condominio Italia. Chiunque attinga denaro dal calderone pubblico deve renderne conto con la massima trasparenza; altro che privacy. La privacy è giusta in altri campi; non la si può utilizzare come paravento per le ruberie del pubblico denaro. I cittadini devono sempre avere il diritto di sapere che fine facciano i propri soldi. Basta con amministratori condominiali che scappano con la cassa senza pagarne il fio. Ricordatelo sempre, ricordatelo tutti: il denaro pubblico è quella sostanza che, prima di trasfondersi in linfa da mercato, è stato quel sangue che tanti di noi hanno gettato a lavorarselo. E’ il nostro denaro e chi lo amministra deve farlo con il massimo rispetto per noi che ce lo sudiamo.
11) Abolizione di tutte le attuali anonime monete metallico-cartacee e introduzione della moneta magnetica nominativa, quale unica banconota a corso legale; si pensi quanti benefici otterrebbe la comunità con questo sistema monetario, l’unico a lasciare anche la più piccola traccia dello scorrere del denaro: niente più reati patrimoniali in genere. L’umanità lascerebbe definitivamente dietro di se tutto il suo passato primitivo, incivile, per aprire un’era decisamente improntata sull’onestà. Niente più evasioni fiscali, niente più rapine, niente più truffe, se non perpetrate con la violenza; in questo caso, appena scoperto il reato, le carte magnetiche nominative dei malacarne verrebbero azzerate istantaneamente dall’autorità preposta. Una vera gabbia per i disonesti. Si pensi per un attimo al delinquente che pretenda il pizzo di stato o privato, che tenti un’estorsione, una corruzione, un rapimento, un qualsiasi altro reato, e presenti la propria carta magnetica nominativa per l’incasso. Impossibile. La tecnologia ci aiuta, utilizziamola.
c) Lavoro
12) Va ribadita innanzitutto la Sovranità del Popolo. Non è concepibile uno stato senza i cittadini. E’, pertanto, ancora più impensabile un’Italia senza Italiani.
13) Non più “l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro”, ma “l’Italia è una Repubblica Democratica e Comunale fondata sui lavoratori”. Non è possibile fondare nulla su una cosa evanescente come il lavoro, che a volte c’è e a volte no; ma fondarla su qualcosa di così concreto come i lavoratori è realtà; stringiamoci un po’, per fare spazio e lavorare tutti.
14) Istituzione di una Commissione Permanente per la creazione del moto perpetuo nell’Occupazione. Ciò che fa crescere una società civile è la domanda; il crescere della domanda incrementa la produzione; la produzione fa crescere il PIL e rende più ricca una nazione. Ma la ricchezza in poche mani causa l’asfissia economica dei mercati, dei popoli. Invece, se si distribuisce maggiormente la ricchezza, frammentandola in unità più numerose ma senza uguagliarla individualmente, s’incrementa la domanda che incrementa la produzione …… e così via. In tal modo, dando continuità alla rotazione, il moto perpetuo del lavoro è avviato.
15) Istituzione di una Commissione salariale di saggi, composta da quei cittadini già in pensione da enti come Senato, Magistratura e amministrazioni locali, con specifica preparazione per il calcolo delle retribuzioni dei pubblici dipendenti, fra i quali sono da annoverare tutti i politici; le differenze retributive fra le varie categorie devono essere di lieve entità; le carriere potranno svolgersi nelle seguenti divisioni: progettuale, esecutiva, applicativa, senza nessun impedimento nello sconfinare dall’una all’altra secondo i meriti. Nella pubblica amministrazione non è possibile concepire che alcuni percepiscano uno stipendio sino a venti, trenta volte quello della categoria più bassa; non è concepibile, non è dignitoso, è immorale. Un presidente, un ministro non possono valere tanto di più di un operaio, soprattutto alla luce dei tanti guai che i primi combinano. Non esiste in pratica una tale differenza nel volume di lavoro svolto dai pubblici dipendenti; c’è chi ha più responsabilità e chi meno, chi lavora di testa e chi lavora pesantemente di braccia. Ognuno contribuisce per i compiti dell’altro. La differenza più logica, umana, che vi possa essere è nel rapporto di uno a tre con una sperequazione a scalare riferita al grado di responsabilità: se i massimi dirigenti percepiscono tre, le categorie sul gradino più basso della scala dei valori devono percepire almeno uno. Non possono esistere differenze maggiori nel genere umano. Diverso il discorso nel privato in cui, soggetto com’è alle rigide leggi di mercato, è lecito offrire compensi maggiori a dirigenti che s’inventano ogni arzigogolo pur di aumentare la produttività e di conseguenza i posti di lavoro e l’utile di un’azienda; comunque anche per i dipendenti privati deve vigere il principio della stessa sperequazione del settore pubblico, nella misura del citato rapporto di uno a tre; per cui se un imprenditore può dare tre ai dirigenti, deve retribuire almeno con uno la categoria infima. Altro discorso da fare per le menti più geniali: inventori, scienziati, scrittori, artisti, e simili non devono avere alcun tetto per i loro guadagni. Essi sono il motore dell’umanità. C’è qualcuno che ritiene giusto quando, dall’invenzione geniale di uno scienziato, ad arricchirsi sia soltanto quell’ipotetico imprenditore che può permettersi di comprare anche i cervelli, senza che personalmente ne possegga manco un briciolo, privo com’è d’intelligenza, di cultura e di preparazione? Inoltre, l’imprenditoria italiana deve imparare a camminare con gambe proprie nelle inviolabili norme della domanda e dell’offerta. Gli incapaci faranno così spazio ai più capaci. Niente più contributi pubblici a pioggia per le aziende private; o sono capaci di produrre o vanno escluse dal mercato. Da estirpare definitivamente vi è anche l’anacronistica figura del mediatore parassita che si arricchisce sul lavoro degli altri. Chi non crede, veda il misero soldo che rimane nelle mani callose di contadini laceri, Questi, con dure fatiche fatte di sudore e sangue, producono i frutti che, invece di arricchire i maggiori artefici del lavoro, finiscono sempre nelle grasse mani di sensali-protettori, trasformandosi in lauta cresta a gonfiare sempre più le seriche tasche di questi parassiti. Basta, inoltre, con i maledetti contributi europei destinati a chi “non produce” più nulla sui propri terreni, isterilendo gli stessi suoli e le energie umane in agricoltura. Si è superato ogni limite dell’assurdo nel regalare soldi a chi non lavora che, guarda caso, sono sempre i soliti clienti di chi governa. E’ indecente. L’inflazione continua e la truffa “lira-euro”, infine, impongono l’elevazione delle pensioni minime e dei minimi salariali di ogni natura oltre la soglia di sopravvivenza; qualche svago anche i più disgraziati devono pur permetterselo ogni tanto; svaghi che, permettendo alla moneta di circolare, incrementano comunque la produzione.
d) Nuove istituzioni I
16) Livelli istituzionali: Consiglio Comunale per nuclei urbani contenuti, Consiglio Regionale, Senato, Consiglio dei Ministri con a capo dell’esecutivo il Presidente dei Comuni Uniti d’Italia; conseguente deurbanizzazione dei grandi centri e costituzione di Comuni con una densità abitativa contenuta per essere ragionevolmente amministrata; i centri piccoli viciniori potranno agglomerarsi sino a raggiungere una densità minima autofinanziabile. E’ il sistema più spiccio per arginare malavita e malgoverno, perché piccolo è più facilmente controllabile, come s’è detto.
17) Elezione diretta del Presidente dei Comuni Uniti d’Italia, capo anche dell’esecutivo, e della relativa lista dei ministri a lui collegata e predefinita al momento di candidarsi.
18) Istituzione del Sistema unicamerale, Senato, composto soltanto da 300 membri eleggibili, oltre i “Senatori a vita lavorativa” i quali, comunque, non avranno diritto di voto, ma solo compiti consultivi; sistema efficacissimo per rendere malleabile e spedito il funzionamento di uno Stato moderno. D’altronde, se si considera che in Italia quelli che decidono la politica nazionale si possono contare sulle dita di una sola mano……, diventano inutili tutti gli altri. Leggetene i nomi sui giornali, sono sempre gli stessi. Si consideri, inoltre, che il vecchio impero romano, così esteso, così immenso, veniva appunto governato dallo stesso numero di senatori, muniti unicamente dell’unico mezzo di trasporto dell’epoca, il cavallo. Volete che oggi, con mezzi di trasporto velocissimi, non si possa governare altrettanto bene un paese come l’Italia ad una sola dimensione? Naturale che lo stesso principio di riduzione numerica sia da applicare in tutti i consessi politici locali e nelle stesse proporzioni.
19) L’organo governativo sarà così composto: Presidente dei Comuni Uniti d’Italia, Repubblicana e Democratica, coadiuvato da dieci ministri al massimo, tutti assolutamente senza portafoglio; è la formula più moderna per snellire la vita economica di una nazione contemporanea. Senza più l’assillo di gestire denaro, i capi dicastero avranno da dedicarsi soltanto alla progettazione dei fabbisogni collettivi e individuali.
20) Limitazione di ogni incarico elettivo e per ogni istituzione nazionale o locale a due mandati di un quadriennio ciascuno, con verifica biennale per limitare i danni in caso di incapacità a governare, ovvero di eventuali impasse d’ogni natura. La verifica potrà effettuarsi su richiesta di un numero congruo di cittadini, utilizzando l’istituto del Referendum propositivo. Le elezioni devono svolgersi contemporaneamente per rendere coincidente la data d’inizio di ogni mandato, nazionale o locale che sia. Se i componenti di un’istituzione venissero bocciati nella verifica biennale, gli eletti che subentrano avranno il mandato solo per il periodo necessario a completare il quadriennio interrotto dalla verifica.
21) Approvazione di una legge che stabilisca la responsabilità diretta dei politici e con effetto retroattivo, con l’introduzione del principio di “esproprio espiativo” da estendersi anche sui beni degli eredi; solo in tal modo il debito pubblico verrebbe appianato in piena giustizia e in tempi rapidissimi, direttamente da chi l’ha causato: chi rompe paga. Tutti i patrimoni costituiti illegalmente devono ritornare di proprietà pubblica; se il padre ha rubato non è giusto che i figli ne traggano giovamento; il maltolto, individuato a ritroso in un tempo illimitato, va restituito ai legittimi proprietari, i cittadini nella loro forma giuridica di Stato. E’ anche un fatto di coscienza.
22) Istituzione di liste civiche predisposte per le campagne elettorali presso i Tribunali territorialmente competenti. Chiunque vorrà liberamente candidarsi, dovrà essere indicato da comunità di varia estrazione, da quelle morali a quelle di cultura, alle civiche, quali condomini, congregazioni di isolato, di quartiere, di rione; successivamente, superate le primarie locali, potrà presentarsi all’ufficiale preposto presso il Tribunale con un valido documento d’identità e, oltre che le proprie generalità, dovrà obbligatoriamente registrare accanto al proprio nome il compenso richiesto per l’intero mandato, che non deve mai superare il massimo stabilito dall’apposita commissione salariale di saggi, e dichiarare di essere munito di auto propria, per la quale saranno previsti i rimborsi delle spese documentate. E’ l’unico sistema di riavvicinare per solo amore il cittadino alla politica e, soprattutto i notabili alla vita pubblica. Valga da esempio, la rinuncia allo stipendio del notaio-sindaco di una città del Salento, decisa appena alcuni giorni fa.
23) Potranno candidarsi tutti i cittadini nei limiti d’età dai 18 ai 70 anni. La politica va fatta per amore verso il proprio Paese e con quell’assoluta professionalità che scaturisce soltanto dall’esperienza. Abbiamo avuto onorevoli completamente impreparati, eletti per i propri soldi e nessun altro merito; onorevoli che, profittando di particolari contingenze, hanno vinto l’elezione come avessero vinto alla lotteria, per sola fortuna. Perciò, è necessario che il politico faccia le sue esperienze seguendo una regolare carriera, partendo appunto dai 18 anni con i consigli comunali e sino alla massima carica dello Stato, senza salti di livello; per poi ricominciare dal livello più basso, con un ciclo continuo che terminerebbe ai 70 anni, l’età massima per la pensione. Pensate ai benefici che otterrebbero i consigli locali con persone che, ricominciando il ciclo dal basso, apporterebbero tutta l’esperienza accumulata nelle alte sfere della politica. Difficilmente si commetterebbero i macroscopici errori, visti anche da chi non vuole vedere, che attualmente inficiano le personalità politiche di ogni grado agli occhi del comune cittadino. E i benefici che otterrebbero gli stessi politici dopo i 70 anni, finalmente liberi di tornare a godersi il resto della vita come ogni comune cittadino. Comunque, sempre iniziando la carriera politica ai 18 anni e impiegando quattro anni a mandato per ogni carica elettiva, si avrebbero due carriere politiche, una minima di 16 anni, passando con un solo mandato attraverso consiglio comunale, consiglio regionale, senato ed esecutivo presidenziale, per poi ricominciare da capo sino all’età pensionabile; ed una massima di 32 anni ripercorrendo lo stesso iter prima di ricominciare dal basso, ma con due mandati. Si potrà liberamente procedere anche con l’interpolazione lineare fra i due limiti.
24) Minuzioso federalismo economico: tutte le entrate fiscali amministrate direttamente dai Sindaci e i propri Consigli Comunali, con la supervisione delle rispettive Regioni a cui rimane affidata la legiferazione locale, sempre nel rispetto di quella nazionale. E con l’esperienza e il grado di civiltà raggiunti, i benefici del Neorinascimento toccherebbero indistintamente ogni individuo. Non avremo più indigenti e la coscienza di ognuno sarebbe completamente soddisfatta.
25) Alle spese del mantenimento dell’esecutivo Ministeriale, Senatori, Regioni, e consiglieri vari provvederanno direttamente i singoli Comuni in quote proporzionali, sempre seguendo le indicazioni emanate dall’apposita commissione per le retribuzioni dei pubblici dipendenti e nel legittimo rapporto di uno a tre. (continua)

redatto a bari il 19.10.2007

martedì 30 ottobre 2007

TORRE TRESCA

Abitare in un ghetto: due chiese, tre negozi, una scuola. Un mare di verde a circondare dodici capannoni in legno, poche case in muratura, oltre mille famiglie, migliaia di anime. Tutte unite da una strada cosparsa di ghiaia, che costituiva per il piccolo abitato l’unica via transitabile, polverosa sotto il sole, fangosa con la pioggia. Estate rovente, caldo autunno, inverno innevato. Anno 1953.
La mia primavera cominciavo appena a viverla, quando la morte di Nico sconvolse l’esistenza della mia famiglia. Per Babbo e Mamma fu un durissimo colpo perdere il loro bambino più piccolo in quel tragico modo. Soprattutto per Mamma, che se lo vide scivolare dalle braccia e cadere dal balcone di casa. Abitavamo in via Carulli, al primo piano del 114. L’abbiamo sempre chiamata “la casa di zia Mamma”, una zia di mio padre che per più di quindici anni ci ha dato ospitalità; all’inizio soltanto ai miei, poi a noi ragazzi, man mano che s’arrivava. La guerra aveva portato come sempre distruzione e miseria, le case erano poche, ogni famiglia s’arrangiava come poteva. In quell’unica stanza fui il primo ad arrivare; Lilli mi seguì un anno dopo; avevo cinque anni quando ci raggiunse Elvira, che sarebbe rimasta la nostra unica sorella. Il giorno della disgrazia il piccolo Nico aveva appena tredici mesi, quando a me ne mancavano solo quattro per i nove anni. Io e Lilli eravamo stati a ritirare le pagelle; tornati a casa, notammo gente presso il nostro portone. La evitammo per salire e sulle scale fu zia Mamma ad informarci. Alle nove di quella stessa mattina mia madre, sfuggito il bambino dalle sue mani, si era precipitata in strada per raccoglierlo e con un auto di passaggio, rarissime a quel tempo, aveva raggiunto l’ospedale, allora situato provvisoriamente nel palazzo dell’Università a piazza Umberto. Ma non si era potuto far niente, Nico morì a mezzogiorno. Mio fratello minore aveva le guance paffute e rosee, la pelle ambrata, capelli a buccoli biondissimi, occhi grandi e vispi d’un intenso celeste, proprio come quelli di Babbo. Ben proporzionato e alto per la sua età. Un vero serafino, come quelli che dipingeva spesso mio padre. Bello, bello, bello. Il Signore s’era lasciato scappare un angelo e lo rivolle subito a Sé con quel volo proprio angelico dal balcone, nonostante quella grossa chiazza livida sulla tempia sinistra. Lo ricordo ancora sul letto di morte, un prezioso ninnolo rotto fra quei cioccolatini e confetti con cui mani familiari l’avevano composto. Mamma non sarebbe stata più la stessa, aveva trentatré anni. Avrebbe poi subito, per l'involontaria disattenzione di un momento pagata caramente, anche un processo penale, da cui ne venne fuori per insufficienza di prove, perché nessuno volle testimoniare contro una madre già colpita a morte; solo il cieco cinismo di una giustizia stupida poteva arrivare a tanto; cominciai a capirlo d’allora. In seguito, anche nei rari momenti in cui le veniva da sorridere, quel dolore cancellò la radiosità dal viso ancora giovane di mia madre, lasciando una sottile ombra a velarle per sempre gli occhi. Babbo, quarantatreenne, fu preso da un dolore così intenso da svenirne. Non avevo mai visto mio padre disteso in terra, occupava l’intero pavimento della cucina. Ripresosi a fatica, tirò fuori la sua corazza di maschio che la società gli imponeva, e vi richiuse lo strazio tremendo che la perdita di quel figlio gli aveva procurato. Io, Lilli e in maggior misura Elvira assorbimmo le conseguenze della tragedia con meno dolore, aiutati molto dalla nostra giovane età. Era la vigilia di Sant’Antonio e tutto accadde in un attimo, mentre suonando transitava la banda in giro per il quartiere.
I miei decisero subito di lasciare quella casa che ci avrebbe sempre ricordato il tragico fatto. Ma era una decisione non facilmente realizzabile per la carenza di abitazioni che da sempre affliggeva il paese. Mamma aveva già fatto due tentativi infruttuosi per ottenere una casa popolare. Al terzo ci andò meglio, ma l’appartamento assegnatoci alla Stanic non piacque a mia madre. La prima volta che si recò a vederlo, dalle finestre aperte le apparve sullo sfondo l’immutabile squarcio del Cimitero. “Madonna mia! Devo vedere per sempre questo bel panorama? No, no; non mi piace; Vi passerò l’eternità lì dentro quando sarà il momento; non voglio farlo anche da viva. No! Non la voglio ‘sta casa.” Furono le uniche parole che mia madre disse in quella fredda abitazione, non immaginando neppure alla lontana che di là a poco in quel Sacro luogo vi sarebbe andata ogni giorno. Comunque, la fisima di mia madre e la lontananza dalla Sud-Est, la ferrovia dove mio padre lavorava, li costrinsero a rinunciare all’alloggio e, inconsapevolmente, a condannare mio fratello.
Nel giro di pochissimi giorni, nonostante il dolore che l’affliggeva e che mai più l’avrebbe abbandonata, Mamma trovò una soluzione momentanea, ma indicatissima, per poter finalmente avere una casa popolare. Negli ultimi anni era diventata una consuetudine dimostrare di vivere, seppur per pochi mesi, in veri e propri tuguri sovraffollati per ottenere l’assegnazione di un’abitazione. E’ quello che fece mia madre in previsione del nuovo bando dell’Ina-Casa per nuovi alloggi in costruzione a Japigia, quartiere periferico di Bari in forte espansione in quei primi anni cinquanta.
Nella zona compresa fra la Chiesa di Santa Fara e il Canalone, proprio a ridosso della stradina sterrata che lo costeggiava, sorse nel 1940 Torre Tresca. Insediamento provvisorio di pochi capannoni in legno per il ricovero dei prigionieri inglesi durante il conflitto nazista, divenne un vero e proprio villaggio residenziale negli anni cinquanta, appena più di un lager, privo com’era di tutti i servizi primari. Ma la fame di case e la convinzione che sacrificarsi qualche mese nel ghetto portava in premio l’abitazione popolare, costrinse qualche migliaio di famiglie a occupare il vecchio lager a rotazione: via una dentro l’altra. Percorrendo la strada di Santa Fara e deviando per la diramazione a sinistra della Chiesa, si raggiungeva Torre Tresca. Era frequente in quegli anni che carri piani stracolmi di gente e masserizie, tirati da un paio di cavalli al massimo, si incrociassero su quella stradina: in un senso andava gente che s’apprestava a occupare, mesta ma speranzosa, la misera stanza lasciata libera da famiglie ben liete di avviarsi, nel senso opposto, verso casa nuova.
Mia cugina Maria, abitava lì da qualche tempo. Mia madre e la nipote decisero di dividere a metà la stanza che lei occupava col marito Giovanni e i sette figli. I nostri parenti si sarebbero sistemati alla meno peggio nella parte anteriore con la porta d’ingresso; noi nella posteriore con l’unica finestra, divisi solo da un’enorme panno scorrevole come parete divisoria. Per abbandonare il più in fretta possibile la casa del dolore, il quindici giugno, due giorni dopo il funerale di Nico, in attesa che Mamma e Maria sistemassero alla meglio le nostre cose nella mezza stanza, trovammo ospitalità a casa del fratello di mia madre, zio Angelo, che con la famiglia aveva casa popolare a via Orazio Flacco. Stazionammo in quel bivani un paio di settimane.
I primi di luglio, a bordo di una tipica carrozza (Babbo non dimenticava mai le sue origini “nobili”) da posteggio trainata da un cavallo baio, seguiti dal consueto carro piano con la nostra roba, ci avviammo verso i nove mesi più avvincenti della mia vita. Lasciavamo dietro di noi l’asfittica zona centrale della città col traffico ordinato, perché ancora limitato a poche auto, per avventurarci in un mondo a noi sconosciuto. Ci aspettavano giorni impensabili per noi ragazzi del centro, penalizzati da spazi esigui e dal verde ridottissimo del quartiere murattiano. Varcate le due colonne che limitavano l’ingresso del ghetto, a meno di cento metri dal Canalone, ebbi la sensazione di oltrepassare la Soglia del Tempo. All’improvviso eravamo stati catapultati in quel far west che riempiva le nostre fantasie, alimentate dai tanti fumetti in auge allora; la nostra tv di carta in quegli anni. Si prospettava alla mia giovane età l’occasione per un radicale cambiamento di vita, del tutto nuovo. Un’esperienza in praticità che mi sarebbe tornata utile per sempre. Trasportato in un baleno dalle anguste strade del centro urbano a quello sterminato spazio verde, mi sembrava lo stesso sogno che, cominciato a tinte fosche due settimane prima, andava trasformandosi via via in tinte più luminose. Non avevo di certo dimenticato quello che mi era successo, ma l’incostanza dell’età mi permetteva di superare con meno dolore il triste momento. Appena entrati nel nuovo territorio, dal mio ottimo posto d’osservazione, a cassetta col vetturino, notai subito che le costruzioni più grandi, in legno imbiancato di fresco per la stagione, avevano i tetti spioventi ricoperti di tegole rosse. Ne contai dodici, sei per ogni lato della strada principale, poste una di fronte all’altra. I capannoni in legno erano preceduti sulla destra da alcune costruzioni in muratura con la copertura piana, in cui erano sistemati il Corpo di Guardia dei Vigili Urbani, un fruttivendolo e alcune famiglie. A mezza strada, sulla sinistra, c’era la Chiesa principale del villaggio, oggi sconsacrata. L’edificio della scuola elementare, in fondo alla strada di ghiaia, costringeva a svoltare ad angolo retto nei due sensi. A sinistra vi era un campo da calcio, che fronteggiava tre file di costruzioni, una dietro l’altra, completamente in muratura, suddivise in tante stanze ognuna occupata da una famiglia. In una di queste stanze abitavano, da qualche anno, il nonno con la nonna e zio Vitino, nell’altra affianco zia Tina con il marito Onofrio. A destra, una stradina più piccola saliva leggermente sino a collegarsi alla strada che costeggiava il Canalone. Al culmine dell’erta vi era a sinistra un altro gruppo di casette monovano in muratura, simili a quelle in basso; di fronte alle casette c’era l’altra Chiesa del villaggio, una vecchia cascina trasformata in luogo di culto, che tutti chiamavano la “Chiesa di sopra”. Le costruzioni, in legno o in muratura, erano esclusivamente col solo piano terra, ad eccezione della “Chiesa di sopra” che aveva il luogo di raccolta dei fedeli al primo piano, a cui si accedeva con una ripida scalinata di pietra. Tutte le abitazioni avevano i servizi igienici in comune, ubicati in grandi stanzoni che fungevano da lavatoio e gabinetti, in fondo ai capannoni in legno o all’estremità delle costruzioni in muratura. Ed era un continuo andirivieni di gente armata di asciugamani, che percorreva il lungo corridoio dei capannoni o il tragitto all’aria aperta per raggiungere i servizi in comune. Vi era una costruzione del tutto diversa dalle altre; l’unica abitazione singola, appena discosta dalla Chiesa principale. Una casetta in legno col tetto a falde ricoperto di tegole e un bel giardino tutt’intorno; pareva uno dei capannoni in miniatura. Vi abitava il vigile Zaccaria con la sua famiglia; era da tutti nominato “lo Sceriffo di Torre Tresca”. Gli altri due negozi erano uno di generi alimentari proprio di fronte al capannone 10, e l'altro nella zona alta dell'abitato che vendeva un po' di tutto, compreso petrolio per lampade, poichè nel villaggio non c'era luce elettrica.
L’atmosfera creata dal nostro arrivo fu del tutto simile a quella che suscitava l’arrivo della diligenza nei villaggi del vecchio West. Erano gli anni d’oro di Tex, Capitan Miki, Il Grande Blek, nostri eroi di carta; chiaro che quelle avventure suggestionassero i ragazzi, che a frotte si attaccarono alla carrozza. Chi non riuscì a trovare appiglio, ci scortò fiancheggiandola sino al capannone 10, il penultimo sulla destra, dove c’era la stanza 26 che avremmo diviso con i miei cugini. Le stanze situate in ogni capannone erano una cinquantina, una di fronte all’altra lungo un corridoio che terminava ai servizi comuni. Due grandi portoni esterni in legno, posti sulla facciata principale e su quella posteriore, chiudevano gli accessi al corridoio; ma per incivile menefreghismo erano lasciati quasi sempre aperti. Arrivati all’ingresso principale del nostro capannone, i ragazzini circondarono la carrozza in attesa di vedere chi fossero i nuovi arrivati. Appollaiato in cassetta, mi sporsi lateralmente, stupito dal clamore. Affacciato al finestrino vidi Lilli divertito con la sua bionda chioma al vento. La nera testolina di Elvira che sbirciava in giro curiosa. Nei loro occhi, celesti dell’uno e verdi dell’altra, lo stesso mio stupore. Babbo era appoggiato allo schienale del sedile interno. Il suo volto esprimeva dolore passato e incertezza futura. Mamma gli era di fronte, non potevo scorgerla. Ma sul volto di mio padre, come in uno specchio, potevo immaginare riflessi gli stessi sentimenti. Il cielo, limpidissimo, era di un azzurro violento. Indifferente.

redatto a Bari il 7.2.1977

domenica 28 ottobre 2007

IL SIGNORE E MADDALENA

Frequentavo con mio fratello Lilli il corso di Catechismo nella vecchia palazzina del Convento di San Francesco, a Japigia, quando è accaduto quello che sto per raccontare. C’eravamo trasferiti da poco in quel nuovo quartiere di Bari. Era il lontano 1954. La scorsa settimana, finito di leggere “Il Codice da Vinci”, ho avuto un nitido ritorno alla mente proprio di quei giorni. Soprattutto un episodio legato al libro di Dan Brown è emerso con prepotenza dai recessi mnemonici di quel tempo remotissimo. Ho ricordato in particolare il giorno in cui padre Ilario, catechista e parroco, dovendo ricevere i genitori dei ragazzi nel rituale incontro preparatorio a Prima Comunione e Cresima, al nostro turno, ci fece entrare nell’ufficio impregnato d’incenso della canonica. La sequenza di quegli attimi è scorsa lenta e chiara nei miei occhi perduti nel vuoto; ho rivisto la scena come se avessi pigiato il rallenty di un immaginario video registrato. I miei parlottano col parroco attorno a una scrivania. Lilli è seduto fra loro. Io girovago per la stanza. Sento, distratto, senza udirle, alcune domande di Babbo nel consueto timbro che sempre mi allerta. La voce per me più familiare, quella di mia madre, si diffonde per informarsi su particolari più pratici della cerimonia religiosa. Padre Ilario, con modi garbati ma spicci, spostando di continuo le vivide pupille all’interno dei suoi occhialini da intellettuale, chiarisce i dubbi, definendo il ruolo di ognuno nel giorno della festa; sempre distratto, odo a malapena che Mamma quella mattina non dovrà essere presente in Chiesa per la Comunione e nemmeno in Cattedrale per la Cresima. - Infatti, le foto della nostra Prima Comunione e Cresima confermano la sua assenza. - La cosa non mi meraviglia più di tanto, so della consuetudine liturgica che, anche in occasione del battesimo, non prevede la presenza delle madri. Intanto, nel mio lieve gironzolare, noto su un mobile d’angolo un libercolo con copertina nera e senza alcuna scritta sul frontespizio. Sembra molto vecchio; le pagine, sottilissime, mi ricordano la pelle trasparente delle mani di nonno; la scrittura è in rilievo come le vene di quelle mani. Sfoglio il libretto a caso, delicatamente, soffermandomi poi a leggere due delle pagine, l’una di fronte all’altra. Il racconto che vi è scritto lo assorbo con finta indifferenza, inconsciamente fastidiosa. Richiudo il libricino, deponendolo dov’era. Avrei dimenticato tutto di quei momenti, se l’eretico “Codice da Vinci” non mi avesse rovistato nella testa, facendoli riaffiorare integri. Il Brown molto probabilmente ha avuto occasione di leggerlo quel piccolo libro. Prendendone spunto, ha poi scritto, novello giuda, soprattutto per denaro e per fini pubblicitari, la sua storia tanto fantasiosa, distorcendone il contenuto che io avevo avuto modo di esaminare con molta attenzione in quell’indimenticabile giornata della mia adolescenza. Ed ecco, parola per parola, quello che in realtà vi era scritto.
<<…… Documenti apocrifi del primo secolo Cristiano narrano che …… “…… A Cafarnao, presso il mar di Galilea, Gesù aveva sentito parlare di una peccatrice. Le leggi del tempo condannavano le adultere alla lapidazione. La donna era incinta non del marito, che intanto l’aveva ripudiata. Il Nazareno intuì che doveva agire subito per salvare due vite. Appena saputo il nome della donna e della città, poco lontana da Cafarnao, si avviò di corsa verso Magdala per evitare la morte di Maria e della sua creatura. I Discepoli cercarono di starGli dietro, ma Gesù andava tanto veloce da levitare sulla strada, sino a scomparire del tutto alla vista di chi Lo seguiva. Mentre procedeva, aveva già predisposto con la Sua infinita bontà un piano per salvare madre e nascituro dalla cattiveria umana. Giunto sul posto, domandò ai savi della città di condurlo a casa della donna e lì, alla presenza dei convenuti, dichiarò che avrebbe sposato Maria perché Padre del bambino. E’ sempre insito nella Sua natura il compito precipuo di prendere sulle Proprie spalle i peccati del mondo. I Discepoli sapevano che non era la Verità, ma capirono che il Nazareno non avrebbe mai potuto comportarsi in maniera diversa da Giuseppe che anni prima, a sua volta, aveva riconosciuto, pur non essendone il padre, il Figlio di Maria come suo, per espressa volontà Divina. E come Giuseppe e Maria, pure Gesù e la Maddalena vissero in sola comunione Spirituale. Del bambino della donna si sa con certezza che fondò una dinastia di gente onesta e franca.”
D’altronde il rapporto del Salvatore con la Maddalena non poteva avere un fine diverso, vista la Sostanza pienamente Spirituale con cui Lui era stato concepito. Quel corpo che la conteneva Gli era stato affidato solo per poter dimostrare all’uomo le sofferenze che si possono sopportare per la Fede. I miscredenti non riescono proprio a vedere più in alto. Attaccati come sono alla materia, hanno l’errata, umana convinzione che Gèsù, perché dotato di sembianze simili alle proprie, potesse veramente sentire le loro stesse basse sensazioni fisiche. Se così fosse, non avrebbe mai potuto essere il Figlio di Dio, altrimenti lo saremmo tutti. Si convincessero che il Figlio Divino è composto totalmente di Sostanza sovrannaturale propria del Padre. Sostanza che solo in minima quantità è stata afflata in noi a rappresentare quella parte dell’uomo impalpabile, astratta, di altra dimensione. La parte senza peso, ma la più essenziale, che “sentiamo” in noi ma non riusciamo a vedere, né a toccare, se non dopo essere trapassati in quella medesima dimensione trascendente, divenendo integralmente di quella stessa Sostanza del Padre e del Figlio.>>
Questo ho letto, e questo ho riportato per amore di Verità. Ogni altra versione è del tutto pretestuosa e sostenuta solo dai Browniani, nel frattempo diventati una setta, tesa con tutto il proprio essere a perseguire solo fini immanenti. In conclusione, è la filosofia di vita sostenuta da coloro a cui mancherà sempre qualcosa perché non in grado di volere e poter mai concepire la dimensione Divina.

redatto a Bari il 15.6.2005

venerdì 26 ottobre 2007

ITALIANI QUATTRO

Italiani, avrebbe detto il Mazzini, le norme per cambiare in meglio ci sono; esse sono state già rese pubbliche in passati programmi elettorali di un nostro candidato alle elezioni per il Comune di Bari nel 1981, in altre competizioni locali fra il 1985 e il 2000, e a quelle per il Senato della Repubblica nel 2001. Eccole schematizzate. Perfezioniamole insieme. Avremo la prima costituzione che concede pari dignità ad ogni individuo, perché costruita secondo natura dalla base, dai cittadini, e non dalle alte gerarchie politiche, pronte solo a incrementare i “loro” già cospicui interessi, e di contro a disinteressarsi totalmente dei problemi veri del Paese. Una Costituzione pratica anche per l’Europa e, soprattutto, necessaria per nazioni prive di democrazia. Le norme che seguono sono rivolte direttamente a quei cittadini che formano lo zoccolo duro della Repubblica, per questo si è cercato di usare un linguaggio quanto più prossimo a quello parlato giornalmente dagli Italiani. Non abbiamo nessuna speranza che possa essere capito e recepito dai politici nell’altra parte della barricata. Con il loro giargianese, quelli che ci governano non si son fatti mai capire di proposito, appunto per non intendere le nostre ragioni. Non illudiamoci oltre che, per vero miracolo, possano essere proprio “loro”, acquistato all’improvviso il lume dell’intelletto, a prendere l’iniziativa del radicale cambiamento che andiamo a proporre; a parte ogni più ragionevole considerazione, non hanno alcun interesse a farlo. Ecco il perché diventa essenziale che sia la base ad attivarsi per attuarle, queste sante norme. Italiani, rimbocchiamoci le maniche e dimostriamo ancora una volta che le sorti del Paese sono sempre nel sacrosanto sudore del Popolo. Dimostriamolo con manifestazioni e occupazioni permanenti, ma pacifiche, delle piazze di ogni città, sino a quando una Nuova Assemblea Costituente non si metta seriamente al lavoro, modellando le grezze norme che il Popolo suggerisce.

PROGETTO PERPETUO DI UOMO POLITICO
(prima parte)

· Motivazioni per le riforme
1) Gli Italiani, col referendum del 2 giugno 1946, hanno scelto il regime con cui essere governati, preferendo la Repubblica e abolendo la monarchia con i suoi titoli, privilegi, e divisioni di classe. Quello che hanno fatto i politici dopo è illegale; “loro” in pratica hanno restaurato, contro la volontà popolare, la esecrata monarchia con tutte le anacronistiche distorsioni sociali, senza aver neanche tentato di mascherarla da repubblica. Attualmente accade che, ad ogni nuova legislatura, i parlamentari appena eletti prendono “possesso” dei palazzi romani delle deposta aristocrazia, sostituendone senza titolo i vecchi signori mandati in esilio, come se nulla fosse accaduto quel 2 giugno. Sarà l’ambiente troppo lussuoso per molti di “loro”, sarà l’atmosfera che vi si respira, è certo, però, che assumono all’istante nei confronti degli elettori quell’odiosa aria di superiorità adulterata e quel tipico menefreghismo crasso di chi sale all’improvviso in auge non avendone l’innata indole. Così ora, invece che avere nobili di antico retaggio, abbiamo in parlamento la “moderna aristocrazia” di estrazione bovara, o peggio. Alcuni di “loro” sono giunti a una tale condizione mentale da trasfondersi sangue asburgico in materia di tasse. In realtà oggi il Paese è retto da un parlamento fuori legge per aver tradito lo spirito repubblicano evocato e legalizzato dal popolo in quel lontano 2 giugno 1946. Si consideri, inoltre, che l’ultima legge elettorale ha esautorato del tutto la volontà popolare nella scelta dei propri rappresentanti parlamentari; e ancora, che a due anni dalle ultime consultazioni, i cittadini non riescono tuttora a capire chi abbia vinto le elezioni, e di conseguenza se a governare non siano addirittura gli sconfitti i quali, eleggendo un presidente della repubblica senza il crisma della legalità, hanno inficiato anche la sua nomina. Se queste gravi considerazioni risultassero tutte vere, ci troveremmo di fronte al classico impeachment dell’intero apparato parlamentare. Ma nessuno indaga, nessuno si rivolta. Popolo svègliati ché, mentre sei assopito, i tuoi stessi amici-compagni ti stanno suppostando dolcemente. Lotta per l’istituzione di una Nuova Assemblea Costituente.
2) A quanto esposto nel punto precedente si aggiunga, inoltre, lo stato di follia collettiva, tipico di ogni monarchia che si rispetti, da cui tutti i politici sono stati contagiati, e si ha la causa prima che incide sui costi assurdi, iperbolici della politica; costi su cui pesa enormemente soprattutto il numero spropositato dei componenti i vari consessi politici nazionali, dal parlamento al più piccolo consiglio circoscrizionale, ai vari enti fasulli, che sono istituiti appositamente per accontentare la ristretta cerchia della corte. Pertanto la loro drastica riduzione è problema vitale. La Famiglia Italiana è così povera da non potersi più permettere servitori di stato tanto numerosi; non sa proprio come pagarli.
3) E per concludere, analizziamo le spese pazze di parlamentari e politici in genere, costituite da privilegi assurdi, da elargizioni a pioggia a titolo gratuito di ogni tipo di servizio, comprese le assunzioni clientelari di parenti, amanti, amici ed altro che sia; senza dimenticare gli inconcepibili, spropositati emolumenti che percepiscono. Abbiamo letto il libro “La Casta”, e non aggiungiamo commenti, per non vomitare ancora una volta nel povero water. Leggiamo dal settimanale “L’Espresso” del maggio 2005, consigliando i fratelli più irascibili, quelli per intenderci che ogni giorno gettano il sangue per vederlo sprecato in tali porcherie, di prendere un sedativo. No, non una mazza da baseball; abbiamo detto un sedativo per voi, non per loro. Passiamo a leggere, va’. Dunque, dall’Espresso rileviamo: un recente provvedimento del parlamento, votato all’unanimità e senza astenuti, sempre in questi casi, ratifica un aumento di stipendio pro capite, cioè per ogni corpo che vi bivacca, di circa 1.135,00 euro al mese che vanno aggiunti ai 19.150 di stipendio, ai 4.030,00 per il portaborse, individuato il più delle volte nella moglie del politico o altro parente prossimo, ai 2.900,00 di rimborso spese per l’affitto e, in ultimo perché emolumento più vergognoso, un’imprecisata indennità di carica variante, a capotica discrezione, dai 335,00 ai 6.455,00 euro, il tutto sempre mensilmente e regolarmente esentasse. Nello stesso tempo il governo, lottando strenuamente già da qualche anno con la tristemente famosa triade sindacale, che altrettanto strenuamente fingeva di combattere, concedeva alla fine dell’immane sforzo l’opulento obolo di 30 euro mensili di aumento per gli statali. Aumento eroso, nel frattempo, dall’inflazione che, in aggiunta a quella degli anni precedenti e in aggiunta alla “truffa del cambio lira/euro”, aveva ridotto il potere d’acquisto dello stipendio mensile dei lavoratori del 60 per cento; ma a loro questo poco importa, purché rimanga sempre inversamente proporzionale il rapporto del tenore di vita politico/lavoratore; legge matematica inventata dagli odierni parlamentari, che non si sono accorti, però, che è la “loro” vera legge “capestro”. Inoltre, giusto per colmare il malcapitato water, “loro” hanno deciso che gli eletti hanno “diritto” alla pensione parlamentare dopo meno di tre anni dall’inizio del mandato. Qualche anno fa i cittadini avevano bocciato con un referendum plebiscitario il finanziamento pubblico ai partiti. Che t’escogitano, allora, i furboni? Il rimborso spese elettorali, dimostrando tutto il loro disprezzo per la volontà popolare. Continuiamo; hanno “diritto” a gratis a uffici e segretarie personali, all’auto blu e alla relativa scorta. Infine, visto inutile il tentativo di impedire al derelitto water di traboccare (si ha più rispetto per l’utilità di questo accessorio che per altro), questi ulteriori “diritti del dritto” sono elargiti a titolo gratuito: telefonino, pc portatile, ingresso nei cinema, ingresso nei teatri, ingresso negli stadi, tessera per bus e metropolitana, viaggi in treno, viaggi aerei nazionali, aereo di stato per quelli internazionali, ingresso nelle autostrade, vitto e alloggio presso ambasciate, uso di piscine e palestre, ricoveri in cliniche, assicurazione infortuni e decesso (quest’ultima spesa la pagheremmo anche volentieri visto che sarebbe proprio l’ultima; ma ci sono i panchinari …… e nulla cambia per il povero cittadino), auto blu con autista, ristorante, alberghi, francobolli. La ciliegina al veleno sulla disgustosa “torta” consiste nell’abominevole usanza, ormai consolidata, di caricare sempre sulle spalle del malcapitato cittadino il mantenere a vita gli ex parlamentari, anche se nessuno li elegge più. Come carta moschicida, zecche o parassiti che dir si voglia, ci si attaccano addosso e non riusciamo a liberarcene per il resto dei nostri giorni, costretti a pagare di tasca nostra tutte le elargizioni gratuite che illecitamente si sono accaparrati durante il mandato, a volte pur breve. E che schifo è. Peggio degli “Sfamazzi Bellucci”, si dice a Bari, in ricordo della famiglia più scroccona della Città. La Famiglia Italiana è così povera da non potersi più permettere i pagamenti, superiori ai propri guadagni, di una servitù tanto ricca; l’Italiano non è capace di andare a rubare, non è nella sua indole. E quelli che lo fanno sono i più disperati, spinti dalla ribellione a tanta ingiustizia. Sappiatelo, voi egoisti, se accaparrate tutto nelle vostre mani, diventa naturale che il prossimo, per vivere, deve sottrarre a chi più ha, non certo a chi non ha nulla.
4) E che aggiungere di più a tutto il male già detto su partiti e sindacati. Ma è stata democrazia quella gestita dai partiti sinora? Il cittadino non ha mai potuto scegliere liberamente i propri rappresentanti in ogni consesso politico, costretto sempre a ritrovarsi di fronte liste precompilate dai partiti in modo schifosamente clientelare; col disastroso risultato di avere figure incapaci a gestire la cosa pubblica. L’asserzione è dimostrata in modo inconfutabile dal continuo crescere del debito pubblico, problema primario da risolvere, ma mai affrontato seriamente dai politici del passato. Posti davanti a cifre spaventose, hanno creduto irrisolvibile la “cosa” e peggiorarne il deficit, secondo la loro limitata visione, non avrebbe certo cambiato le già precarie sorti del Paese; al contrario, cambiavano di sicuro in meglio le loro sorti. Sotto, dunque, a sperperi di ogni tipo, sino all’incredibile, al pazzesco. I sindacati hanno contribuito, in combutta con la politica, ad evitare che i cittadini si coagulassero in un insieme granitico, al quale sarebbe stato difficile resistere nelle contrattazioni salariali e nel migliorarne le condizioni lavorative. Hanno anche “loro” la gran parte di responsabilità negli assurdi sperperi perpetrati in ogni istituzione pubblica. Tutti i mali delle odierne differenze sociali rinvengono dallo scriteriato grado di impreparazione e menefreghismo dei sindacati nelle contrattazioni, presi com’erano, anche loro, dall’imperante clientelismo nel tentativo di far parte della stessa sfera dei "neomonarchici". Meglio non indagare a fondo su alcune situazioni patrimoniali. L’unico modo per neutralizzare la canea ringhiante è toglierle l’osso; strappate le tessere sindacali, non rinnovatele mai più. Altro discorso è da fare su militanti e attivisti, sia di partiti che di sindacati. I primi non fanno altro che arrampicarsi su quella sfera viscida per cercare d’entrarne e poi sostituire i rispettivi amici-compagni politici. I secondi si prestano per sporco denaro e indegne mercanzie a pressarvi sulle preferenze elettorali. Sono le categorie più pericolose, perché si annidano anche all’interno della vostra stessa famiglia e con parole suadenti vi lavano il cervello ogni quinquennio, condizionandovi a votare sempre gli stessi. E l’obiettivo che i mandanti si prefiggevano è raggiunto; sia voi che loro continuate a rimanere divisi. (continua)

redatto a bari il 19.10.2007