lunedì 29 maggio 2023

LA NOSTRA JAPIGIA

 INNO A JAPIGIA

Avevo 9 anni e 5 mesi quella mattina del 21 marzo 1954, a quei tempi un'età già matura per essere considerati qualcosa più di schegge d'uomo. Alcuni nostri coetanei, oltre la scuola, lavoravano già. La nostra famiglia non aveva ancora superato quella che è la situazione più tragica che si possa vivere nella vita. In quella soleggiata alba d'inizio primavera Mamma ci disse "Andiamo a casa nuova,, andiamo a Japigia". Quel nome allora straniero per me, non era novità. Venivamo da altro quartiere straniero del centro di Bari, il Murat. E stesse caratteristiche aveva il nuovo rione, almeno nelle quattro strade principali a quadrilatero, racchiuse sui lati lunghi dal viale che le divideva dalla ferrovia e, simile ad abbraccio materno, dall'infinito verde agreste tutt'intorno. Diversa la distribuzione delle stradine interne delle traverse japigiane; in tutt'e e quattro a intrigante labirinto. Cos'è stata Japigia per la nostra generazione? Un solo termine. Tutto. Da ragazzini Japigia è stato il nostro Eden, il nostro West. I suoi spiazzi interni e i terreni agricoli abbandonati, da noi trasformati in campi da calcio, le nostre palestre a cielo aperto. Il mare a pochi passi la nostra piscina estiva per imparare il nuoto. E nelle giornate più fresche i viaggi pedestri nelle savane intorno i nostri territori di caccia; armati di fionde da noi costruite abbiamo martoriato lucertole, serpi e poveri uccellini. Altra mentalità allora verso gli indifesi animaletti. Marce lungo la via Gentile a farci scorpacciate di gelsi rossi dai grandi alberi che punteggiano sui lati la lunga via, sino alla masseria Iacobellis. La strada terminava  all'incrocio con la provinciale per Triggiano. Oltre il passaggio a livello difronte al Camping, scorreva la vecchia statale 16, che dal lungomare portava a Brindisi. Il viale Japigia terminava dove iniziava via Gentile, il Canalone faceva da spartiacque. Per le nostre passeggiate, che duravano l'intera mattinata, ci portavamo una Rosetta da casa, o la compravamo fresca dal panificio Japigia, il più vicino; il companatico ce lo procuravamo dalle campagne attraversate, pomodori, fioroni, finocchi e altri frutti di stagione. Quel Canalone era il nostro Gran Canyon, lo percorrevamo tutto, dal mare alla strada vicinale Caldarola a caccia di scorzoni. Fra calcio, mare ed escursioni passavamo così le nostre vacanze estive, il primo anno durate da marzo a ottobre per la negligenza di molte mamme. Scuole non ce n'erano i primi tempi. La prima fu l'Amedeo d'Aosta nel 1956 poco più di un anno dopo si aggiunse la scuola elementare affianco al convento di San Francesco. Anche molti grandi frequentavano il Canalone, se ne servivano per cogliere cicorielle selvatiche, sivoni, rucola e altre erbe aromatiche. Le famiglie vi passavano la Pasquetta fuori porta. Un lungo rosario umano si svolgeva quel giorno dalle case delle quattro traverse sin giù al Canalone. Tutti in fila sui bordi del viale con fagotti di stoviglie e cibi cotti in mano, dal capo famiglia al più piccolo, chi a piedi, chi in bici, pochi su rombanti motociclette, vi si recavano di mattina presto a stendere coperte e tovaglie sul prato nei posti migliori per passare una giornata in allegria fra pranzi, bevute, musica, canti e balli. Molti nostri compagni sono stati avviati ai mestieri più disparati da tanti giochi di strada. Chi è stato attratto dall'edilizia dopo aver costruito le traballanti casette in pietra e lamiere nei campi liberi dietro casa; chi invece dalla meccanica, per aver realizzato i veloci carrucci in legno con ruote a cuscinetti a sfera, o le saettanti slitte con lo stesso materiale. Ci si ingegnava alla meglio, allenando la mente a compiti più ardui, che da grandi ci hanno permesso di primeggiare sul lavoro. Fra quelle viuzze intrecciate sono nati i nostri primi amori, nei prati gli incontri più compromettenti. Quanti hanno visto sorelle e fratelli maggiori sposarsi, diventare madri e padri. Tanti quelli che abbandonavano le scuole per cominciare a lavorare sin da ragazzini, divenendo responsabili per se stessi e, se si perdeva il padre o la madre, pure dell'intera famiglia. Sono migliaia le storie che se ne potrebbero trarre dai 70 anni di vita della nostra Japigia, culla della nostra meravigliosa, irripetibile infanzia. Spensieratezza responsabile, nonostante tutto...

venerdì 26 maggio 2023

Don Castiglione

 DON CASTIGLIONE

Ho giocato nei tornei calcistici a 7 del Redentore nel triennio 56/58 e il parroco dell'oratorio del Redentore era don Castiglione, Giuseppe per l'esattezza. Lo ricordo bene per due episodi indelebili, il controllo del mio cartellino prima di una partita e una pallonata sulla nuca che involontariamente gli tirai, testimone Biagino Catalano, che mi salvò da una checherata che don Castiglione era solito dare ai ragazzi quando s'incazzava, motivo per cui gli appiccicammo il nome trasformato in don Cazzchiglione. Quello che ho notato nel ritaglio di Gazzetta è che don Castiglione non è nominato. Che non sia sbagliato l'anno 1957? Perché don Castiglione è stato parroco dell'oratorio del Redentore di Bari dal 1954 al 1859, come prova questo ritaglio estratto dal web sulla storia della Chiesa del Redentore...

Una foto di don Castiglione nel 1957...

sabato 20 maggio 2023

A VENEZIA

 A VENEZIA CON AMORE

Venezia, Venezia, Venezia, ah ecco, Ottobre 1985. In viaggio di nozze io e mia moglie ci siam fatti a piedi dalla stazione di Santa Lucia ai giardini della Biennale, fotografandoci per 30 pose in ogni angolo particolare di Venezia. Seduti a una panchina di quei giardini, ci accorgemmo che nella macchina fotografica non c'era il rullino. Fra rabbia e risate, sfogammo il tutto ai Do' forni con una mangiata sensazionale, in quantità e qualità. Il giorno dopo ripetemmo il tragitto e le pose, ma non vennero spontanee come il giorno prima...

POLITICA SPORCA

 POLITICI, PESO INUTILE PER LE UMANE ATTIVITÀ

Gianni Petino, ti giro medesima risposta a un altro amico.

Negli anni precedenti nessun governo giocava a fare l'indiano con i fucili dei visi pallidi. E con i soldi compravo pasta pane secondo frutta e pagavo tutte le bollette di casa; e mi rimaneva qualcosa per divertirmi durante il mese, andando in giro con l'auto senza problemi. Mentre questi hanno promesso per finta di ridurre almeno le bollette carburanti. Mica sono scemi. Il più scemo politico, sinistra centro e destra, del parlamento possiede azioni delle multinazionali di gas luce e carburanti, le quali società ladrone col popolo, appena vengono eletti i nuovi, sinistra centro e destra, regalano un bel pacchetto di azioni a ognuno. Non lo sapevi? E in tal modo è da ottobre che tergiversano sulle riduzioni, ci ripensano sugli aiuti energetici, insomma fanno e fanno ma per finta, e gli aumenti di tutti i generi per campare salgono ogni giorno per ogni acquisto che facciamo, sino a ridurci il potere d'acquisto al 15 del mese, quando va bene. Sino a oggi gli unici aiuti concreti, 350 miserabili euro una tantum, ci sono arrivati dal Drago, stretto di deretano, banchiere venduto all'Europa e alle internazionali iridate, che doveva far vedere di darci 350 con la manina corta e rastrellare ogni mese il quadruplo dei soldi nostri sudati a sangue, con la longa manu artigliata su ordine delle stesse multinazionali. E mica son fessi a darsi la zappa sui piedi i parlamentari cravattari. Tutti in coro sempre col grido univoco "Giù le tasse, giù le tasse", e invece giù vanno le nostre braghe, mentre loro, i politici, nascondono dietro la mano col medio alzato, pensando sempre in coro "N gul a vvù" alla barese. Il popolo, che come al solito è stupido, sceglie sempre sbagliando quelli che gridano "N gul a vvù", e affossano invece quelli che cantano "Onestà, Onestà". Un'occasione per cambiare l'Italia che non si ripeterà più per idiozia congenita dei comuni cittadini (scusa il gesto, che dà l'idea di quanto siano porci) 😡👹🥶...

REPUBBLICA QUOTIDIANO

 REPUBBLICA GIORNALACCIO

Sin dai suoi esordi ho sempre sostenuto che Repubblica è un giornale mongolfiera. Ogni notizia è un pallone gonfio d'aria. Pur di fare scoop le inventano tutte. Per questo non l'ho mai comprato. Va avanti a casse pompate da soldi pubblici. Cioè nostri. Buono soltanto per incartare pesce...

SENZA SOLDI

 SENZA SOLDI ALLA BARESE

Stoggh senza trris.

Stoggh assutt.

Non tengh na lir.

Pall chien e pald vacand.

C m rvuld a cap sott, sol polvr iess.

U portafogl mì sta arragat ch l trris.

Stoggh scuat...

Da mo ca p mme iè alleluij.

So sman ca voggh a iurm.

 Stoggh im biangh.

E se ne potrebbero elencare ancora tante di definizioni. Il bello del barese è che non è lingua unica. Ci sono detti familiari, di vicinato, di quartiere e cittadino, sia del centro con accento più snob, sia di periferia più sguaiato...

mercoledì 17 maggio 2023

Piripicchio, maschera barese anni 50

 PIRIPICCHIO ARTISTA DI STRADA, MASCHERA BARESE ANNI 50

Piripicchij, accom ng si fatt dvrtì quann vinv a Bbar jind o slargh dlla Madonnin alla Quarta Traversa d Japigg, aqquann iemm tutt uagnungidd. L rsat che ng faciv fa all battut ca nu mangh capscemm; ma l grann, chiù malzius, rdevn cchiù d nù. E quanda prisc a vdert ballà ch la musch dlla rigonett d'u giovn che t'acchmbagnav. Ijv nu mmisc-ch d Totò, Sciarlott e Rdolin, ma nu t chiamamm asslut Totò ❤🙏❤...

domenica 7 maggio 2023

GLI SCHENA DA BARI A MILANO

 A TUTTI GLI SCHENA DEL GRUPPO

Riconoscete questi coniugi in foto? Sono i miei nonni materni, nonna Felicetta e nonno Michele Schena, direttore del Macello Comunale di Bari negli anni 30. I miei nonni, lei di Andria, lui originario di Castellana Grotte, ebbero otto figli, zio Giovannino il più grande 1897, morì subito dopo la Grande Guerra per le ferite riportate a un ginocchio quando era al fronte; zia Caterina 1900; zio Angelo 1903; zio Antonio, zio Ciccillo e zio Nicolino tutti e tre trasferiti a Milano nel 1936; zio Emanuele morto a 19 anni per un'infezione; e ultima mia madre Rosetta del 1920. Avevo anche tanti cugini a Milano. Walter (Michele) Schena, Vilma (Felicetta), e Gianni, figli di zio Antonio e zia Anna; Vanda (Felicetta) Schena e Michi (Michele), figli di zio Ciccillo e zia Carmela presso cui siamo stati ospiti nel 62/63 io e mio fratello Michele; Roberto (Michele) Schena e Isabella (Felicetta), figli di zio Nicolino e zia Nella. Dei tanti cugini milanesi, ci restano soltanto il Walter, Michi e Roberto. Anche qui a Bari eravamo in tanti, purtroppo siamo rimasti io, Michele ed Elvira, figli di mia madre Rosetta Schena e il mio babbo Francesco Petino; e Franco e Rosetta, figli di zio Angelo Schena e zia Marietta. Non ci sono più i sei figli di zia Caterina Schena e zio Giovanni Giannuzzi. Come non ci sono più Michele e Giovanni, figli di zio Giovannino Schena e zia Marietta, in famiglia detta la vedova, per distinguerla dalla zia Marietta moglie di zio Angelo. Michele e Giovanni si trasferirono con la madre a Milano a metà anni 50. Purtroppo non ci sono più i miei fratelli Nico, Tonino e Angelo; come scomparsi sono i figli di zio Angelo e zia Marietta, Tina (Felicetta), Lillino (Michele) e Rina (Caterina); sono pure deceduti tutti i figli di zia Caterina e zio Giovanni, Marietta, Michelino, Felicetta, Nicolino, Antonetta e Rosetta. Se sono stato prolisso ne chiedo scusa. Ma ho sentito il dovere di riportare queste note relative a radici comuni, non appena letto il cognome Schena, a me tanto caro. Buona giornata...

sabato 18 febbraio 2023

IL VOLO DI FRANCESCA

 UNA FERITA MAI RIMARGINATA, CARA FRANCESCA. UN PEZZO DI CUORE DEL TUO PAPÀ S'INVOLÒ CON TE QUEL 18 FEBBRAIO DEL 70, ANIMA MIA ❤🙏😪🙏❤...

A UNA FIGLIA CHE ANCORA MI STRAZIA IL CUORE 

 “Sei arrivata già alata e leggera come una piccola rondine. Ma il tuo canto garrulo non l’ho mai udito. E su quelle stesse ali hai preso il volo in fretta in fretta. Ho cercato d’afferarti ma sei stata più rapida del baleno a decollare verso le braccia, già pronte ad accoglierti, di quel Padre molto più grande di me. Stanne certa che ti avrei amata come Lui ti ama. Quando, le braccia inutilmente tese, ho capito che non ti avrei più ripresa, ti sei girata un’ultima volta, e con l’ancor rosea manina mi hai fatto un cenno. Ciao papà. Un saluto e quel dolce nome mai pronunciati ma sentiti col cuore di padre. Come in realtà ti sono stato in quei giorni brevi, ma per me pari agli anni vissuti con tutti i tuoi fratelli. E, col dolore più crudo nel cuore straziato, ho dovuto risponderti. Così presto, Francesca? Dopo soli 28 giorni? Quanto la durata del freddo febbraio, reso più freddo dal tuo volo astrale. Una prima carezza, un solo bacio, un ultimo abbraccio, almeno, mi sarebbero stati di conforto. No, non è vero, non è giusto, non mi sarebbero mai bastati. Aspettami, ti raggiungerò per darti in abbondanza e per sempre tutto quello che mi è stato negato di profonderti quale tuo papà terreno. Arrivederci piccolo, minuscolo Amore mio immenso.” Tutto è accaduto in quella fredda mattina del 18 febbraio del ‘70 …

A Francesca

 AUGURI A UNA FIGLIA MAI POTUTA STRINGERE AL PETTO

Ti aspettavamo qualche mese dopo, ma tu, figlia mia, avevi fretta. E due mesi prima, quando ancora immatura hai voluto affrontare i pericoli di un mondo avverso, prorompesti alla luce con la tua minuscola figurina. Eri poco più d’una rosea bambola in miniatura. Tanto piccola che attraverso le maniche dell’incubatrice infilavo le mani per accarezzarti, riuscendo a tenere il tuo delicato corpicino in una sola delle due. L’altra mano non faceva che accarezzarti continuamente per infonderti il calore necessario a creare energia sufficiente per venir fuori da quella piccolissima casetta di vetro. Reagisti nei primi giorni, illudendoci. Ma il tuo papà non ha saputo avvisarti quanto dura fosse la vita; non ha saputo difenderti contro i mali che affliggono gli uomini. Facemmo appena in tempo a chiamarti Francesca, ma il nome del nonno, che insieme a zio Nico ti hanno poi accolta festosi, non servì a prolungare la tua brevissima parabola terrena, accesasi quel lontano 21 gennaio del 1970 e spentasi appena 28 giorni dopo. Un autentico lampo che mi ha illuminato per poco, spegnendo poi la gioia di pochi attimi in anni di lunghissimo dolore rinchiuso. Ventotto trepidanti giorni fatti di pochissime ore, in cui le due sorelline più grandi ebbero il tempo di darti una sola sbirciatina speranzosa. Speranza, che tutti coltivavamo, di vederti al più presto uscire da quel cubicolo, trasformatosi invece in una bara di vetro come le principesse più sfortunate. Nemmeno il battesimo cristiano facemmo in tempo a impartirti, anche se il prete ci consolò con parole che ci assicuravano il Cielo per te, mia piccola donnina indifesa. Né il suono della tua voce, né una foto abbiamo. Ma di quei giorni ansiosi la tua immagine, che tuttora conservo in mente e negli occhi, è indelebile. Mentre le tue sorelle, i tuoi fratelli crescevano, ho immaginato giorno per giorno che saresti diventata bella come loro, prima ragazzina, poi donna. Ogni anno in questa data ti ho fatto gli auguri col cuore, oggi scrivendoteli. Ma in questo cuore, ormai vecchio, l’angolo d’amore a te dedicato è identico a quello degli altri tuoi fratelli. Per tutto ciò che non ti ho potuto dare in quei lunghi giorni brevissimi, provo ancora rimorso. Con amore, dal tuo papà …

Pasquale Dentuto

A PASQUALE DENTUTO, MIO CAPITANO

Agosto 63 ultimo sabato, accetto l'invito di un mio cugino di andare al ballo serale al Cral dell'Acquedotto alla periferia di Ceglie. Qui incontro Vincenzo Monno, che non vedevo da tempo.

- Ciao Enzo, come stai.

- Bene e tu? So che giochi in una squadra di Milano.

- Giocavo. Ma dopo due anni e la delusione finale, sono tornato, lasciando perdere il calcio.

- Ehi, uno come te che abbandona il pallone? Non ci credo.

E gli raccontai della visita medica all'ospedale di Niguarda, che mi fermò.

- Senti, Vito, perché non vieni con me nella Pro Inter. Ti diverti senza impegno stressante e non molli quella che so essere la tua passione di sempre.

Fu facile convincermi e posi una sola condizione.

- Purché la domenica non vi siano trasferte troppo distanti.

- No Vito. Non si superano i confini provinciali.

E fu così che la sera del primo martedì di settembre conobbi Pasquale Dentuto. Trovai Enzo con tanti altri ragazzi che si allenavano sul piazzale dell'Orazio Flacco. Enzo fece le presentazioni e con Pasquale fummo subito in sintonia, una simpatia a pelle. Seppi che gli allenamenti si tenevano in spiazzi cittadini, come i piazzali intorno allo Stadio della Vittoria, oppure il terreno antistante la Chiesa di San Francesco a Japigia, o come quella sera davanti al Flacco, perché la Pro Inter non aveva un campo casalingo proprio. Alla fine dell'allenamento dell'immediato giovedì a Japigia, fui convocato per l'amichevole della domenica dopo ad Altamura, nell'accordo fra le due società per la cessione di Nicola Ancona ai biancorossi dell'Alta Murgia. In quell'allenamento conobbi tanti compagni e dirigenti, che mi furono accanto negli 11 anni passati alla Pro Inter. I portieri Tanzi, Aiuola, Rana, Petaroscia, Perilli, i terzini Loseto, Putortì, Costanza, i mediani Capriati, Spinelli, Micheletti, gli stopper Lapomarda e Cassano, gli attaccanti Sedicino, Colangiuli, Cianci, Paterno, Catalano, Novembre, Campana, Schirone, Monno che già conoscevo come ho detto, Ancona con cui giocai quell'unica amichevole con l'Altamura. I dirigenti erano Carlino Schirone, con incarico  di accompagnatore in panchina e rapporti con gli arbitri, di altri non ricordo il nome, come quello di tanti compagni che ora mi sfuggono. Molti altri li conobbi negli anni successivi. La domenica dell'amichevole alle 11 ci vedemmo nella sede della società. In verità nel retro di una lavanderia di via Dalmazia in cui, oltre a provvedere al lavaggio di tutte le divise, grazie alla signora Poldina che faceva da magazziniere si può dire, si custodivano indumenti e attrezzi di gioco. Palloni nuovi, ma scarpe usate e sformate di ogni numero e appunto forma. Io avevo la mia coppia di Pantofola D'oro che calzavo alla perfezione. Cosi scoprii che la società oltre a un campo proprio, non aveva nemmeno una sede sociale, e si andava avanti anche con qualcosa che Pasquale rimetteva di tasca propria. Giocammo per i primi due anni a Rutigliano, 1963 e 1964; il 65 a Valenzano; tornammo a Rutigliano nel 66 e nel 67; nel 68 e 69 al Campo degli Sport, nel 70 era pronto il campo del San Paolo, ma non ancora omologato, così continuammo a girovagare per le partite casalinghe fra Campo di Adelfia, Noicattaro quello a polvere di carbone della Divella, e ancora il Bellavista, dove giocai la mia ultima partita il 24 dicembre 73, vincendo 17 a 2 contro la Modugnese. Nella prima partita ad Altamura conobbi il presidente Lillino Milanesi, che quando si vinceva immancabilmente si presentava a fine gara per darci il premio partita di 5 mila lire a testa, e se per impegni improrogabili non veniva ad assistere alla partita, consegnava la somma dei premi a Pasquale. In quella gara amichevole ad Altamura Pasquale mi affidò la maglia numero 10, che indossai in tutti i miei undici anni alla Pro Inter Bari. Quella gara la vincemmo 3 a 2, i gol li fecero Colangiuli il terzo, Pasquale il secondo, e il primo Ancona, giustificando ampiamente il suo acquisto fatto dall'Altamura. Pasquale invece mi sorprese due volte, non sapevo che oltre a essere allenatore, giocava ed era pure il capitano, fortunatamente avevo già conosciuto il presidente, sennò avrei pensato che Pasquale avesse pure quel ruolo. Ma la meraviglia fu nel vederlo giocare. Incerottato, con fasce elastiche a entrambe le ginocchia e una alla coscia destra, non correva ma faceva correre il pallone quasi sempre verso il compagno libero; la sua pluriennale esperienza gli permetteva di piazzarsi nella fascia centrale del campo, ben sapendo dove il pallone manovrato dagli avversari sarebbe passato per impossessarsene senza affannarsi. Non in tutte le partite si inseriva in formazione, sapendo quando le sue condizioni fisiche, e accadeva spesso, non gli permettevano di giocare. Ho giocato con Pasquale sino alla fatidica partita di Palese contro la squadra locale, marzo 67, dove si ruppe tibia e perone della gamba destra, e fu la sua ultima gara, per la cronaca finita 0 a 0. Pasquale ha avuto molta importanza anche nella mia vita extracalcistica. Non so quando Pasquale divenne collaboratore del presidente Lillino Milanesi, so che per la firma del cartellino della Pro Inter mi invitò a settembre 1963 in via Amendola nella sede commerciale del predidente. Aprile 64. Tornavo con la mia Lambretta a casa per la pausa pranzo. Percorrevo il lungomare verso Japigia. Dalla strada di fianco alla Caserma dei Carabinieri mi tagliò la strada un'auto senza fermarsi allo stop. Ruzzolai con tutto il mezzo fin sotto il marciapiede davanti ai Carabinieri. Mi prestarono aiuto. La prima voce che sentii fu quella di Pasquale, che passava in quel momento di là.

- Petino, c t si fatt. Tutt a ppost, Vito?

E io pronto.

- Tutt a ppost, Pasquà. Dmench pozz scquà.

A luglio del 64 persi mio padre e Pasquale mi confortò. Più che un fratello maggiore, si comportò da padre. A luglio del 65 lavoravo sul cantiere della circonvallazione nel tratto relativo al ponte su corso Sicilia. Erano già state riempite le spalle dei due muri di sostegno del ponte con materiale pietroso a strati sempre più piccoli sino al tappeto in brecciolino, per dare al fondo stradale la pendenza giusta alla salita dalla quota più bassa all'impalcato del ponte. Toccava rifinirlo con la tufina prima degli strati d'asfalto. Il materiale di polvere di tufo veniva trasportato in loco e scaricato da camion col cassone ribaltabile. Mio compito era quello di controllare che il carico arrivasse sino alle sponde del cassone con la cima del carico a piramide. Per farlo dovevo arrampicarmi alla sponda e salire su una ruota per guardare all'interno. Uno dei camionisti era proprio Pasquale che, vedendomi fare quell'operazione con l'anello al dito, mi venne incontro dicendo di togliermi l'anello. Anni prima aveva perso l'anulare sinistro per colpa della fede che, rimasta impigliata alla sponda del camion, glielo tranciò di netto mentre saltava giù dalla ruota, con tutto il peso del corpo che fece da strappo. Perciò mi suggerì di non lavorare mai sui cantieri con la fede. Grazie Pasquale, per tutto quello che mi hai dato in quei momenti bui dei miei anni giovanili. Un solo rammarico, aver fatto i primi allenamenti sul nuovo campo del San Paolo, senza aver poi giocato nemmeno una partita ufficiale, quando fu rilasciata l'omologazione dalla Figc. E da quel momento la Pro Inter Bari cambiò nome in San Paolo Bari ❤🙏❤... 

sabato 28 gennaio 2023

MIO NONNO VITO

 Mentre mio nonno Vito (nato nel 1884 in via Venezia 17 e morto nel 1977) era impegnato al fronte nella Grande Guerra, mia nonna Elvira Traversa del 1883 (morta a ottobre del 1918 di spagnola) si disimpegnava a casa con i suoi quattro figli (nella foto manca Nicola del 1911 morto a 5 anni cadendo dai gradini di casa in via Giandomenico Petroni pochi mesi prima di questo scatto), tutti nati in via Venezia 21, zia Celestina nel 1906 (morta di tifo a Roncadelle a 20 anni), mio padre Francesco nel 1910 e morto nel 64, zia Tina nel 1914 morta nel 2001, che poi sposò Onofrio Vox, e zia Sandra nel 1915 morta nel 69, che sposò Peppino Vox. La foto è del 1916.

Robert Dinapoli, sì, mio nonno tornò incolume dalla Grande Guerra, visto che ci ha poi lasciati nel 77, lo stesso giorno della morte di Benedetto Petrone; erano in due stanzette attigue dell'obitorio del Policlinico. Di Benedetto sappiamo come; mio nonno invece si spense dopo una settimana di coma a seguito di caduta dalla comune scaletta da cucina a tre gradini per nascondere la bottiglia del vino alla sua terza moglie. Ha visto morire tutti i suoi figli, meno la penultima di nonna Elvira, zia Tina, il figlio avuto dalla seconda moglie milanese, zio Nando, e uno dei due figli, zio Vitino, avuti dalla terza, Isa, bresciana; è sopravissuto a mio padre per ben 13 anni. Mia nonna era barese come lui, le altre due le ha conosciute durante la Grande Guerra. A leggere le sue memorie, viene spontanea la domanda come abbia fatto a cavarsela. Aveva 93 anni portati benissimo, così lucido che poi mi ha lasciato il suo manoscritto di memorie da 300 pagine, che io ho in bella mostra nello studio, chiamandolo "Il Librone". Ecco la prima pagina. Tieni presente, Roberto, che aveva la terza elementare, e gli strafalcioni sono comprensibili ❤👍❤...

venerdì 27 gennaio 2023

MEMORIE JAPIGIANE

 A Japigia ci sono arrivato nel marzo 54 e il viale era a doppio senso perché, oltre i carri trainati da cavalli e qualche sporadica auto d'epoca, non vi erano molti veicoli. La stessa via Peucetia non esisteva, e il bus 2 istituito da poco era costretto a percorrere il viale nei due sensi per l'andata al capolinea in stazione e il ritorno al capolinea nello slargo della Quarta Traversa ad angolo col viale, proprio vicino le colonne col box del calzolaio sotto, oggi via Magna Grecia. Poi con lo sviluppo di massa delle auto non è stato più possibile circolare sul viale a doppio senso, come mostra la foto. I distributori sul viale erano 5. Al Mobil della foto si aggiunse a pochi metri uno dell'Agip, e andando verso sud, c'era quello di fronte al bar Messapia, ultimo a essere smantellato, nell'isolato dopo c'era quello di Bellini quasi davanti all'edicola di Ciccio e Marco Triggiani, e infine quello nello spiazzo del citato capolinea del 2. Il grande distributore Agip, tuttora sul viale ad angolo con via Medaglie d'oro, venne realizzato anni dopo, quando i Matarrese costruirono i loro palazzi in quell'angolo. Vanno ricordate anche altre attività. Il bar Japigia del papà dei fratelli De Giglio, che aveva anche una rivendita di tabacchi su corso Sonnino di fronte a via Matteotti; il signor De Giglio ci aiutò tanto nell'acquisto dei terreni di proprietà Iacobellis di fronte all'Intergarage, dove realizzammo le nostre prime abitazioni in cooperativa nel 75. Il panificio Japigia di Nicola Caricola di fronte all'edificio rosso della SGPE, e il panificio Mio quasi attaccato al vecchio passaggio a livello che dava su via Rovereto, poi via Di Vagno. Il mercato scoperto di via Pitagora iniziò l'attività quasi un anno dopo la nostra venuta a Japigia. E non posso dimenticare l'Arena Japigia quasi di fronte al mercato, dove in tante sere d'estate ne abbiamo fatto di risate con i film di Totò, invidiando Minguccino che abitava al 32, il palazzo attaccato all'Arena, dal cui terrazzo si vedevano i film gratis; il momento più brutto delle visioni era il fischio lontano del treno che si avvicinava disturbando l'ascolto, e la "iosa" in coro di noi ragazzini per protestare. C'era anche un altro momento in cui facevamo la iosa, facendo scappare dal cinema il tizio che molestava  i ragazzini al grido "auand u..." (oggi non si può dire su FB, ma per strada e al cinema sì). E infine ho avuto il privilegio di inaugurare insieme a tanti compagni il 1º ottobre 1956 l'Amedeo D'Aosta, la mia scuola media, frequentando la 1ª F. Beh, mo' avast. Alla prossma pundat (tratto dal gruppo LE MITICHE QUATTRO TRAVERSE DI JAPIGIA, la foto è del 56) ❤👍❤...

PER NUNZIA

 Massimiliano Ranieri, nel 63 conobbi zio Marcello; lavoravamo in via Abate Gimma in due negozi diversi a un isolato distanti, da Marconi io e dalla Kleber tuo zio, se ricordo bene. Avevo 19 anni. L'amicizia fra Marcello, mio fratello Lillino e me divenne più stretta. E un giorno mi portò a casa di tua nonna, quel palazzo sul viale Japigia, se non sbaglio al n. 32, ed è lì che ho conosciuto per la prima volta la vostra mamma, la cara Nunzia...

CONVIVIO 5ª C GEOM

 Sempre più piacevoli i convivi con i compagni di 5ª C geom del Pitagora 71 Bari, ieri sera riuniti allo Squarciolla di Torre a Mare. Cena gustosa ma scarsa, servizio ottimo, portate saporite al punto giusto; unico grave difetto il sale. Il di più è stato profuso a sacchi nella coda. Conto salatissimo dunque, nel rapporto qualità, buona, quantità, scarsissima, e prezzo, altissimo. Recensione: SQUARCIOLLA, UN RISTORANTE A TORRE A MARE, DA EVITARE AD OGNI COSTO 🤔👹🥶...

sabato 14 gennaio 2023

A MIO FRATELLO TONINO

 OGGI 14 GENNAIO IN RICORDO DI MIO FRATELLO TONINO ...


VIAGGIO A BOLOGNA CON I MIEI FRATELLI TONINO E ANGELO

Oggi son quattro anni che mio fratello Tonino non è più con noi. Fra i tanti ricordi di una vita ce n’è uno incancellabile.

 Eravamo appena usciti dall’autostrada io,  Tonino e Angelo, quando in un grande rondò con infinite diramazioni vedemmo ferma sulla destra un’auto che sprigionava fiamme dal cofano anteriore, dove un probabile corto aveva innescato un incendio nel vano motore. Le fiamme non erano alte, ma il fumo intenso preoccupava. Tanto che nessuno dei presenti si avvicinava per paura di rimanerne coinvolto. Tanti altri nelle proprie auto rallentavano giusto il tempo di ficcarci il naso, e poi proseguire la corsa indifferenti. Quando, Tonino per primo, capimmo dalla mimica degli attoniti astanti che in auto vi era qualcuno. Vedemmo il nostro gigante buono bloccare l’auto, schizzare fuori, rovistare con movimenti rapidi ma calmi nel cofano posteriore e, armato di estintore, fendere la folla attorno all’auto in panne ma a distanza di sicurezza. Senza pensarci due volte, si portò davanti al cofano in fiamme e spruzzò a piè fermo tutto il contenuto schiumoso in modo da indirizzare il forte getto alla base della colonna di fumo, facendola deviare in direzione opposta alla posizione del guidatore all’interno, che a occhi sbarrati per il panico vedeva tutto senza reagire d’un battito di ciglia. Tonino riuscì a spegnere le fiamme. Subito in tanti ci affaccendammo ad aprire la portiera, scoprendo solo allora che alla guida c’era una signora, che aiutammo a scendere ancora con gli occhi sbarrati.

- Signora, ringrazi quell’uomo che è riuscito a spegnare le fiamme.

- Bravo, giovanotto. Ha compiuto un atto di coraggio puro.

- Meno male che lei aveva l’estintore in auto.

Furono i commenti.

E nella gran confusione, vedemmo il nostro Tonino farci segno di raggiungerlo in macchina, dove aveva già deposto l’estintore scarico.

- Fusc, mttidv jind alla maghn. S no mò arrivn l cagacazz ca voln nom, cognom e tutt la razza lor.

- Tonì, ci iè sta fodd. Tin p ccas l’asscuraziona scadut? Vid d sci chian chiuttost.

E appena entrati, manco seduti, partì a razzo facendoci sobbalzare. Facemmo appena in tempo a sentire dal finestrino aperto la domanda che stavano rivolgendo i vigili appena arrivati.

- Chi è il signore che ha spento le fiamme?

Ma non sentimmo più niente. Eravamo già lontanissimi. Eravamo partiti da Bari alle quattro di notte per viaggiare con meno traffico. Tonino aveva voluto prendere la sua Renault 30 per permettermi, io più anziano, di fare qualche ora di sonno in più sull’ampio sedile posteriore, mentre lui guidava discorrendo con Angelo al suo fianco. Avevo invitato i miei fratelli ad accompagnarmi e trascorrere con me una settimana alla Fiera dell’Edilizia di Bologna dell’ottobre 1981. A parte l’episodio appena narrato, fu una settimana che non trascorrevo con loro in modo così piacevole sin dai tempi in cui si viveva tutti assieme a casa dei miei, io fratello maggiore, Tonino il quarto dei miei fratelli, e Angelo il più piccolo. Di quel viaggio ricordo nitidamente un altro episodio poco piacevole accaduto al ritorno a Ortona a Mare, dove ci fermammo a pranzo presso un ottimo ristorante sul mare. Ma questo voglio raccontarvelo in vernacolo barese …


ORTON A MMAR, QUANN FUMM SCANGIAT P GIARGIANIS

Lassamm u’albergh d Bologn all’ott d matin. Ngi’avemm alzat cchiù ttard prcè la ser apprim, l’uldma dì d la Fir, dop la chiusur, scemm a mangià da Gin, la solta Trattorì sott nu lengh porticat a iarch, addò jì scev a mangià ogni iann da quann m prtò la prima vold o millnovcindsettandatrè Lilli Macchij, u patrun addò jì fadgav a Bbar. Po’ u millnovcindsettandase’ m mttibb p cund mì e condinuabb a sci alla Fir d Bologn ogni iann. La matin ca partemm da Bologn p vnì a Bbar acchiamm nu sol ca iev nu prisc. Appen trasut sop all’autostrad, ng frmamm all’autogrill p nu cafè. La colazion l’avemm giè fatt o u’albergh. Tonin guidav ca iev nu piacer. Addò s ptev s flav quas a ducind all’or, ma non z s’ndev mangh nu fil d vind. Ngi'affrmamm arret sott ad Angon, ma cchiù p sgranghirg l gamm ca pu cafè. Dop Pescar la fam s facì s’ndì.

- Tonì, appen vit la scritt Orton, jiss ca sciam a mmangià a nu bell ristorand sop a mmar. So stat n’anda vold e s mang alla grann. Probrij accom all ristorand atturn o Purt a Bbar.

- Si scur, Vitì. Non n’è ca po’ ng ven u scitt.

- Chiamì, Tonì, appen arrvabb l’alda vold mangh jì sapev accom iev la chccin d cuss ristorand. Ma accom vdibb tanda cammion, m’affrmabb scur. Addò stonn camionist, statt tranguill, che s mang accom m’paradis.

Assemm a Ortona e all’un e mmenz stavam assdut tutt’e tre a nu tauw a quatt, cu mar drmbett. U ristorand stev appen appen sollevat dalla strata prngpal, e la vist ca s vdev facev aprì d cchiù u stommch. Ordnamm tutt do menù ca ng prtò u cammarir, sgnann ogni piatt cu disct. E senza cchiù aprì vocch, ng facemm appdun n’andipast d crud d mar, fettuccin all frutt d mar, nu bell dendc in umd ch l’auuì, frutt e mmir gnor, cudd biangh no mm’ha ma’ piaciut, pur sop o pesc. E prim du dolg e u cafè, rpgghiamm a parlà. Quann s sta a venda chien, l carvun sott a la cenr s’appiccn arret, sobrattutt c sop ngi’ammin nu picch d cudd bbun e gnor, probrij accom a ccudd che avemm bvut nu’, e subbt tanda fatt vicchij d famigghij sbttrrorn daffor.

- Sì, Vitin, però tu t sta scurd d chedda vold ca p cinguandamla lir t cacast la facc a discm d no.

- Tonì, angor ch stu fatt ve’ nnanz. Accom tu ià rchrdà che iev sabbt, l bbangh stevn achius e tnev appen descmla lir p fa la spes. T dcibb vin a ccas ca m l fazz da’ da mgghierm. E tu non d facist vdè cchiù cudd pomerigg. Ma uè mett tutt ciò che so fatt jì p vu’ dop la mort d Babb. V so fatt d’attan a tutt. A tutt v so acchiat fatich. Che cazz’ald vliv.

- Oh, ma stadv citt tutt’e du’, che v sit semb approfittat d me ca iev u chiù pccnunn.

- E cudd’ald ca sim lassat a Bbar che ha pgghiat l distanz p pavur angor ngi'aijtav. Non zim parlann po’ d chedd, ca ngià ddat da grattarg la cap a tutt.

- Povra Mamm, quanda uà ng sim fatt passà. Angor iosc ng ven u prisc quann stam tutt nzim a iedd, ch mgghijr e nput.

E na parol tira l’ald, l vosc s ievn caldssciut e cchiù che parlà, senz’avvrtirg, ngi’acchiamm a grdà.

- Ma tu che cazz t crid d’ess dvndat.

- Famm u piacer d start citt.

- Ma frnidl ca facit chiang l gattud.

E mendr tutt stu gbller scev nnanz, vdibb Angelo cangià facc, faccennc nzgnal d chiamndarg dret. Ci avev arrmanut ch la ch’cchiar alzat, ci ch la frcina mmocch, ci a vocch apert e ci ch l’ecchij spalangat. All’ald tauw nsciun cchiù stev a mangià. Tutt che stevn a chiamndà un tiadr che avemm fatt. Ngi’alzamm citt citt, mangh cchiù dolg e cafè pgghiamm. Pagabb u cund e p scarcà la fattur, o patrun du ristorand ng dibb u bgliett da vist cu codc fscal.

- Ah, siete di Bari. E noi che ci siamo mangiati il cervello per capire di quale stato arabo eravate!

Appen assut ng mttemm jind alla magghn e ng n scemm. Chmnzamm a rit chian chian, e po’ sc-cattam dall rsat, sin a cchiang.

- Sit s’ndut. Ngi’avevn pgghiat p giargianis e no p baris.

- Megghij acchsì. Almen non hann capit tutt l chillemmurt che sim ditt…