domenica 7 novembre 2010

A PASQUALE ABRESCIA


Mio caro Pasquale, mio caro fratello, oggi son due anni che ci hai lasciato. Da soli a continuare nella sofferenza in questa dannata valle di mostri. Siine certo, non ti sei perso nulla, anzi, hai evitato di assistere a tante altre brutture a cui un animo nobile e sensibile come il tuo non si è mai rassegnato. Ci manchi tanto. Mi mancano le visite che molto spesso ti facevo nel tuo ufficio sul Lungomare. Quell’ufficio che ti ho sempre invidiato, perchè vi si godeva una delle più belle viste sul nostro splendido mare. L’ultima volta che sono stato lì da te era luglio del 2008. Guardavamo la gente che affollava Pane e Pomodoro, quando nei nostri occhi una luce improvvisa ci schiarì la memoria riportandoci indietro nel tempo. Fummo colpiti dallo stesso pensiero che esprimemmo insieme ad alta voce “Ma non era mica lì Pane e Pomodoro”. Realizzammo in quel momento di essere stati fra il gruppo di ragazzi che “hanno fondato” la spiaggia di Pane e Pomodoro, quella originale. Mi suggeristi di scrivere alla Gazzetta per chiarire l’errore di ubicazione di quello che è stato uno dei luoghi felici della nostra infanzia. Te lo promisi, però il tempo, infinito ma mai sufficiente, non mi ha permesso di mantenere. E’ stato nella primavera del 1954 che il nostro gruppo di deci-dodicenni, il gruppo della Quarta Traversa di Japigia, si è conosciuto. Provenivamo da diversi quartieri di Bari per abitare le nostre case nuove. Poche settimane alla chiusura delle scuole, ma tanti di noi avevano già preso la strada del mare. La più breve era quella che in cinque minuti, percorso il campo di erbacce intorno alla stazione di Parco Sud, attraversando il fascio di binari e scavalcando la staccionata di cemento che divideva la ferrovia e via Imperatore Traiano, ci conduceva dalla nostre abitazioni alla parte esterna a sud del Lido Marzulli, dove l’accesso al mare era libero. Per entrare nel Lido, invece, bisognava pagare. Dal muro di recinzione del Marzulli e sino allo spigolo del Canalone, prima del ponte del Transatlantico, un ristorante per ricchi, e fra via Traiano e la spiaggia, vi era un campo coltivato a pomodori. Lo chiamavamo “’u lech d’ G’lorm”, un fondo di terra e sabbia, più sabbia che terra, dalla quale Girolamo, il contadino, con tanto sudore arando, seminando e annaffiando di continuo le piantine con acqua di pioggia e di pozzo raccolta nel pilone di cemento al centro del campo e distribuita nei solchi arati, riusciva a coltivare grandi pomodori rossi, dolcissimi. Prima di andare a mare, noi ragazzi e ragazze, con qualche lira avuta o presa a casa, passavamo dal Panificio Japigia sul viale per comprare un panino, con gianduiotto o formaggino; io, tu, Lilli e Nicola al panino preferivamo dividerci le quattro pagnotte che componevano il mezzo chilo di pane a forma di quadrifoglio. Appena sulla spiaggia togliendoci, sempre di corsa, sandali, pantaloncini o gonne, e magliette, si entrava in acqua tutti insieme sollevando di proposito schizzi per bagnarci subito; si usciva dal mare soltanto quando le dita delle mani erano completamente raggrinzite e bianchissime. Con le mani ancora umide ognuno prendeva il suo panino e companatico pronto ad addentarli con l’amore della fame infantile. Ma alcuni restavano delusi scartando il proprio companatico: gianduiotti e formaggini avevano stessa forma a triangolo e stessa carta stagnola dorata; nella fretta dell’acquisto era facile confondersi nel prendere uno per l’altro. Scambiandoseli, il più delle volte il problema era risolto se gli scontenti erano in numero pari, altrimenti nemmeno lo scambio sistemava l’avversione per uno o l’altro dei companatici; allora bisognava accontentarsi del solo panino. Un giorno d'agosto di quel gioioso '54 capitò a me di rimanere a pane asciutto. Il primo morso non ne voleva proprio sapere di andare giù. Mi guardai in giro e vidi i pomodori già belli e maturi nel campo lì vicino; fu un gesto istintivo il raccoglierne uno grosso e rossissimo, sciacquarlo nel mare per liberarlo da terra e sabbia, spiaccicarlo succoso nel panino che ci facevamo tagliare prima dal panettiere, e mangiarlo con maggior piacere per non averlo pagato. Da quel giorno tanti di noi, anche per tenersi in tasca qualche soldo, presero l’abitudine di mangiare il panino del Panificio Japigia col pomodoro di Girolamo. Diventò naturale, perciò, la mattina quando ci radunavamo nel cortile delle nostre case, domandarci e risponderci “Mario, vieni a mare?” “Dove?” “A Pane e Pomodoro”. Così è nata, non la leggenda, ma la vera Storia di Pane e Pomodoro. La zona esatta della nostra spiaggia, quindi, era molto più a sud; più o meno nella parte finale dell’attuale Punta Perotti. Quella della Nuova Pane e Pomodoro alla nostra epoca non esisteva neanche, lì era tutto mare; la strada che la costeggia non c’era, perché il lungomare Nazario Sauro terminava girando nella via Di Vagno, alla fine della quale vi era il vecchio passaggio a livello di Japigia, quello proprio a ridosso delle basse casette sulla ferrovia. Non c'era nemmeno il giardino Gramsci, al suo posto vi era un lido di baracche di legno; Di fronte all’odierna Pane e Pomodoro vi era un alto muro di tufi, sotto cui s’infrangeva il mare; al di là del muro era situato il campo “Morcavallo” con alcune officine poste sui lati corti, botteghe di fabbri soprattutto; in quel campo giocavamo a calcio. In una occasione nel rettangolo di gioco si fermò per una settimana anche un circo. Quando si giocava su quel campo, ci imbrattavamo completamente di nero perché il fondo, invece che di terra, era composto da polvere di carbone. Dopo la partita, per lavarci e toglierci quella polvere di dosso, sgusciando da una apertura che c’era alla base del muro, facevamo altre corse sulla spiaggia, che oggi è diventata la carreggiata sud di Punta Perotti, per raggiungere la nostra Pane e Pomodoro dove, fra le altre cose, sono nati i primi giovanili nostri amori: Rina, Gildarosa, Lia, Pupetta, Rosetta, Anna, Antonietta, Ninetta, Silvia, Annetta, Maria, e tante altre ormai nascoste negli anfratti della memoria; quanti bei fiori freschi e odorosi c’erano nel prato della nostra verde età, e fragranti come il nostro pane e pomodoro.

Edito a Bari il 7.11.2010

domenica 31 ottobre 2010

MISTER ONOFRIO FUSCO



Caro Maestro, un dolore grande mi ha pervaso alla notizia della tua tragica scomparsa. Dopo tanti anni, ricordo ancora nitidamente quello splendido mattino assolato dell’otto maggio del 1958, quando ho avuto la gioia di conoscerti. Mi ero presentato al vecchio Stadio della Vittoria per un provino e per te sono stato subito “pupetto”. E’ il nome che mi affibbiasti lì per lì, certamente per la mia giovanissima età. E’ il nome con cui mi hai chiamato per strada ancora qualche mese fa: non hai mai dimenticato nessuno dei tuoi ragazzi; non solo sei stato un maestro calcistico per tutti, ma per molti anche maestro di vita. Quanti giovani sono cresciuti con i tuoi paterni insegnamenti; i Catalano, i Frisini e Carrano e Taiano, Mele, Quadrello, Consiglio, Caprio, Nonnato e tantissimi ancora, della mia e di altre generazioni. Mai avresti immaginato che la tua vita avrebbe avuto fine proprio per mano di quei ragazzi che tu tanto hai amato. Perdonali; perché sicuramente non ti hanno avuto loro maestro! Sfortuna per loro, fortuna per te: ora alleni allievi migliori nei divini prati. Arrivederci, mister Onofrio Fusco, uno dei tanti tuoi figli ti saluta con amore. Sempre tuo, vitopetino “pupetto”.
Edito a Bari il 9.11.1994