lunedì 31 dicembre 2007

LA MAGLIA DI GULLIT

Come ogni anno, ormai consolidata tradizione, anche alla fine dell’ultimo campionato di calcio c’è stato il lancio delle maglie verso gli spalti. Quest’anno, però, mi è toccato assistere a quel che succede dopo, fra i tifosi, per conquistarsi il ricordo del proprio campione.
Trenta maggio 1993. San Siro ore 17,45. La partita è appena finita. I rossoneri festeggiano la conquista del tredicesimo scudetto, girando a bordo campo. Si fermano in curva, invocati dalla fazione più calorosa dei milanisti. Fra le teste dei giocatori le treccine di Gullit spiccano come neri vettori. L’olandesone si sfila la storica maglia numero dieci. Indietreggia per una breve rincorsa e lancia l’ancor vaporoso cimelio verso un gruppo già pronto a lottare per conquistarsi il simbolo di un’epoca.
I supini raggi solari, proiettando le lunghe ombre del tempio calcistico sulla multicroma folla festante, riescono a trovare un pertugio nella tribuna, illuminando, come intenso riflettore, la scena della imminente mischia, ancor meglio di quel che avrebbe potuto fare il più esperto dei registi. La maglia lanciata dalle possenti mani nere vola appallottolata verso una selva di ansiose mani tese.
L’estemporanea palla rossonera esplode improvvisa, come un fiore che sboccia nell’azzurro del cielo crepuscolare. Le maniche si stendono opposte simili a lunghi petali. Il dorso della casacca si apre scoprendo al centro un candido dieci, che il riverbero del sole morente lo fa più luminoso. Il glorioso indumento rallenta il volo, si ferma in stallo, plana poi dolcemente verso il gruppo in fremente attesa. Ondeggia, costringendo la folla ad ondeggiare. Cercando di cambiarne la destinazione, i più forti spintonano il gruppo. Ma non c’è nulla da fare; è già deciso. Con un ultimo scarto la maglia s’adagia su cinque coppie di artigli pronti ad afferrarla.
Una ragazzina e quattro uomini lesti la celano, la scoprono, la tendono. Percepita l’impossibilità di inserirsi nella zuffa, tutti gli altri s’allontanano. S’iniziano le schermaglie decisive. Un signore vestito di blu, con il collo della camicia bianca aperto e la cravatta scura slacciata, tira una manica; le tempie striate di grigio, una rada corolla di capelli neri intorno al cranio, calvo in cima, due occhietti spiritati, ha l’aspetto del tradizionale impiegato statale. All’altra manica è attaccato un giovane dall’aria decisamente professionale; meno di trent’anni, occhi azzurri, riccioluto e biondissimo, camicia di seta, jeans firmati e mocassini. Mezza spalla e il colletto del trofeo conteso sono fra le dita sottili ma forti di un giovanotto dall’evidente spirito studentesco; corvina e folta la lunga chioma. Un energumeno, alto forte robusto, i capelli castani a spazzola, abbigliamento e sembianze da lavoratore di braccio, stringe il busto della maglia, coprendo in parte il mitico numero dieci con la larga sinistra callosa chiusa a pugno; la destra, intanto, sospinta dal braccio muscoloso, distribuisce equamente vigorosi spintoni. Al lembo inferiore sono abbarbicate le piccole mani dell’unica donna la quale, più che impossessarsi della maglia, sembra ne sia posseduta come in un esorcizzante ballo di San Vito; i suoi lunghi capelli rossi ondeggiano dappertutto, simili a fiamme nella vorticosa tempesta intorno a lei. E’ la sola in balia degli eventi.
Il primo a mollare è il funzionario statale dopo una poderosa spinta dell’energumeno. La manica appena liberata cade subito preda delle svelte mani dello studente. Poco importa all’energumeno, perché nel suo improvvisato piano di battaglia ha previsto di liberarsi prima di chi può dargli più fastidio; costringere, poi, i due ragazzi alla resa sarebbe stato un gioco.
Rivolge il secondo attacco, perciò, contro il professionista. Cerca dapprima di aprirgli le dita in cui è stata arrotolata, intanto, la manica destra. Non riuscendovi e accortosi che anche l’avversario possiede una bella forza, passa a menare spintoni energici per fargli perdere l’equilibrio e così mollare la presa. Inutile anche quest’attacco, sta per passare ad azioni più distruttive, quando s’accorge con stupore che l’antagonista è stato costretto a mollare la presa per prendere istintivamente al volo il suo costoso orologio, che aveva perso un asse del cinturino per i continui strattoni. Il professionista, recuperato il prezioso, s’allontana imprecando. Approfittando della indifferente ma volontaria distrazione dell’energumeno, lo studente s’impossessa agile dell’altra manica. Ora la maglia è per molto meno della metà nelle sue mani; la gran parte è nella sinistra dell’energumeno, tranne il lembo inferiore dove, tenacemente avvinghiata, s’aggrappa ancora la ragazzina. Fa tenerezza.
Le sue possibilità di conquista sono nulle; come d’altronde pochissime sono le chances dello studente. Infatti, certo di aver superato gli ostacoli più duri, il viso dell’energumeno si rilassa in una smorfia di trionfo. Con le fronti ricamate da gocce di sudore che, scivolando lungo le guance arrossate, si sperdono nei colletti delle magliette in rivoli sotterranei, tre paia d’occhi si fronteggiano. Il primo dilatato dal piacere dell’imminente vittoria, il secondo illuminato da viva intelligenza, il terzo spaurito. All’ennesimo strattone le mani sottili della ragazzina perdono la presa sul tessuto. Stanca ma non vinta, si scosta di pochi passi, rimanendo seduta sul gradone a seguire la conclusione della conquista.
Un ghigno che vorrebbe essere un sorriso fa esplodere una forza animalesca, che l’energumeno riversa nell’ultimo atto. Grugnisce, si agita, scuote l’avversario dall’una all’altra parte, in avanti poi indietro. Lo solleva per un istante e lo lascia ricadere l’attimo dopo. Sembra che l’impari duello debba concludersi da un momento all’altro; frazioni di secondo e dovrebbe essere fatta. Ma lo studente, intanto, non molla. Usa le braccia come ammortizzatori. Non si oppone a quella forza della natura; anzi, accondiscende con lucidità ad ogni brusco movimento dell’altro nel tentativo, inutile in apparenza, di sfinirlo. La presa, comunque, è sempre ben salda. I rivoli di sudore s’ingrossano sino a rendere entrambi fradici. I dieci sensi sono attivamente all’erta, le due menti in contrastante riflessione, le quattro braccia ferme per una breve pausa; sembrano pilastri di cemento quelle dell’energumeno, cavi d’acciaio puro le braccia dello studente. La lotta riprende. Sembra bella, interminabile, invece il tutto dura solo da una manciata di minuti. Non c’è mai stata violenza pura. Ognuno ha usato i propri mezzi nei limiti della lealtà soggettiva. La breve pausa ha dato linfa rinnovata all’energumeno che riparte con accanimento. Pur avendo speso indubbiamente di più, ora è deciso a metter fine allo scontro, a conquistarsi definitivamente il cimelio. Lo studente continua ad opporre resistenza passiva ma, tuttora con energie fresche, la conclusione sembra segnata. Quando quasi tutta la maglia, bagnata ora anche del sudore dei campioni sconosciuti, è nelle mani sicure del più forte, accade l’imprevisto. La ragazzina, scattata dal sit-in che s’è imposto e aggirando le spalle ampie dell’energumeno, ormai esausto, gli infila le sue delicate manine sotto le capaci ascelle provocandogli un frenetico solletico, che in breve lo costringe a mollare completamente la sua faticosa conquista. Veloce lo studente afferra la maglia di Gullit e corre via, subito raggiunto dalla ragazzina. L’energumeno si riprende all’istante. Pronto a scattare per inseguirli, rinuncia vedendoli abbracciati far scomparire tra loro l’insperato trofeo. Capisce che quella maglia era già stata destinata, quando scorge allontanarsi, illuminate dall’ultimo sole, le due teste unite, l’una rossa e l’altra nera.
Dedica dell’autore
A Gullit e agli altri 10” della storia rossonera: dai primi pionieri, passando per Green e Liedholm, per Schiaffino, Grillo e Rivera, sino ai giorni nostri. Un grazie riconoscente per le tante gioie che ci hanno donato. Onore agli “Imbattibili di Fabio Capello”.
Una dedica riconoscente da chi tifa MILAN da una vita.

redatto a bari il 30.5.1993

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