mercoledì 16 febbraio 2022

MOLESTIE INVERSE

 MOLESTIE INVERSE

Confessione per confessione, anch’io da piccolo sono stato molestato. Visti i tempi, quindi, ho diritto di denunciare gli abusi sessuali, ormai prescritti, patiti da femmine, oltre 70 anni fa. Modificando nomi e luoghi, due sono le vicende, fra infanzia e adolescenza, che maggiormente mi hanno visto protagonista. Zia Caterina, sorella di mia madre, aveva nei pressi di San Francesco alla Rena una casa rurale con un fondo abbastanza grande per soddisfare le necessità della famiglia. La campagna di mia zia andava dalla pensilina attorno alla quale faceva capolinea la filovia della Saer, linea 5 piazza Massari-Lido, proprio di fronte all’ingresso della spiaggia (non l'attuale, ma quello ad angolo mozzo nella congiunzione delle vie Umberto Giordano e Verdi), sino al confine di un’altra campagna molto più grande, che a sua volta arrivava sin sotto lo stadio della Vittoria. Da quando sono nato e sino al 1952, le nostre vacanze estive le passavamo da mia zia, trascorrendo le giornate fra bagni di mare, lavori agricoli che vedevano impegnati zii e cugini, e cene serali sull’aia alla luce di lumi a petrolio. Io e mio fratello ci divertivamo scatenati a inseguire galline svolazzanti e un paio di caprette che mia cugina Felicetta aveva battezzato Nerina quella nera, e Bianchina la bianca; nella stalla attigua alla casa vi erano anche conigli e un cavallo che all’ora di cena dormivano di già. Fra stalla e casa vi era un piccolo locale destinato a cucinino. Entrando in casa, vi era lo stanzone soggiorno-pranzo, e in un angolo un pozzo di acqua piovana freschissima che dissetava tutti dalla calura estiva. La campagna dei vicini, con i quali i miei zii avevano stretto un comparizio reciproco, aveva una casa molto più grande, una vera masseria, con una stalla enorme e tanti animali in più; il terreno si estendeva sin dietro alcuni capannoni sulla via Napoli. Vi coltivavano tutto l’anno ogni tipo di ortaggi; una parte di quel suolo, quando non c’era ancora il Villaggio Trieste, era invece coltivato a cotone. I compari di mia zia avevano nove figli, tutti maschi tranne l’ultima. Il padre e i ragazzi s’impegnavano ogni giorno nei lavori di campo della propria masseria. Sandina, la ragazzina più piccola, trascorreva in casa di mia zia molto tempo. Mia madre, impegnata tutto il giorno con due bambini, cercando di dedicare più tempo a mio fratello più piccolo, chiedeva a Sandina di darle una  mano, soprattutto la sera per farmi addormentare. Questo andazzo si ripeteva più volte nei due, tre mesi estivi che trascorrevamo a San Francesco. Sandina mi si era attaccata morbosamente; ricordo come fosse oggi i giorni trascorsi al sole nell’erba alta o all’ombra dell’albero dei gelsi nelle ore più calde del primo meriggio. E proprio a fine giugno del ‘52 accadde il fattaccio. Mia madre, più indaffarata dall'arrivo di altri due figli, da un po’ di tempo aveva da ridire sull'interessamento di Sandina, molto più attenta nei miei riguardi che verso mio fratello d'un solo anno più piccolo. E quando la ragazza tornava a casa, confidava alla sorella.

- Catarì, no m piasc accom Sandin s'attaccat a Vitin.

- C uè, Rosè, t'aijtat a cresc-uw sin da pccnunn, iè normal che s'av affezionat o pccninn.

Mia madre abbozzò, ma si ripromise di aprire gli occhi. Una sera si avvicinò e mi chiese.

- Cos’è ‘sta puzza?

E prese le mani per annusarle, volle sapere cosa avessi toccato. Istruito da Sandina che mi aveva proibito di riferire un certo giochino che mi faceva fare, risposi di aver tastato le galline col dito per vedere se erano pronte a far l’uovo. Mia madre sembrò al momento convinta di quella bugia. Ma l’istinto di mamma e la sua esperienza di donna sposata, che alla mia età non avrei mai potuto intuire, erano ormai all’erta. Alle sei del mattino dopo Sandina, appena arrivata da noi e aver aiutato mia madre a farci fare colazione, mi chiese di andare con lei nella stalla per raccogliere le uova deposte. Ogni volta quella frase convenzionale mi metteva una certa effervescenza in tutto il corpo e di corsa mi precipitavo nella stalla di mia zia. Nascosti nell’angolo più riparato, Sandina prendeva con la sua una delle mie piccole mani, accompagnandola in un movimento meccanico che da tempo mi aveva insegnato per solleticare i suoi primi pruriti femminili, risvegliando precocemente in tal modo anche il mio istinto ancora latente di maschio. Non sapevo ancora che si potesse fare altro; e pur sapendolo sarebbe stato inutile. Sul più bello sentimmo una voce, soffocata ma animalesca, e vedemmo mia madre a denti stretti venire verso di noi inveendo, ma costringendosi però a farlo sottovoce per non far trapelare nulla fuori da quella stalla, ma sfogò la rabbia mollando un ceffone che segnò la guancia della ragazza. Per sorprenderci era entrata lì prima di noi. Io e Sandina non ci eravamo accorti che, mentre si faceva colazione, mia madre era sparita. - Brutta lord, vrgugnt. A sidci'ann t'ada c-rcà iun dell'etaia tò e no nu pccninn d sett'ann. C si arunat a figghijm, t la fazz pagà car assà.

E a me.

- Quando viene tuo padre …

Era la frase con cui mia madre ci metteva più terrore. Anche per la piccola mascalzonata mio padre ci menava da non credere, figurarsi per aver fatto “le cose sporche” come mi avrebbe combinato. Non capivo allora di essere io la vittima di quegli abusi. Sandina cominciò a piangere e pregare di non dirlo ai suoi. Mia madre volle sapere.

- Da quand adur sta storij?

E la risposta della ragazza impaurita fu sincera.

- Quando era piccolo mi sono accorta che bastava mettergli le manine al caldo per farlo addormentare prima, e d’allora è cominciato tutto. Perdono, signora, ma non ditelo a mio padre.

- Madò', e quand'ann tnev? Du, tre iann. Lord ca non zi iald, non d'è ma' passat p la cap ca ptiv spavndauw p ssemb.

Non so se mia madre calcolò che anche Sandina era una bambina all’inizio di quella storia. Ma sembrò più distesa pensando, forse, che se non avevo dato il più piccolo segno di alcun trauma sino a quel momento, probabilmente avevo superato bene quello che poteva essere uno shock deviante. Non rividi più Sandina. Ma la paura che mio padre venisse a saperlo me la cancellò completamente dalla memoria, facendomela riesumare soltanto ora per ricordarla nel racconto, in tempi tardivi comunque per ogni inutile reazione, che a quei tempi manco costituiva reato. E che reato poteva essere, se non pruriti d'infanzia. Naturalmente, sino a oggi, questo segreto e rimasto ben nascosto fra me e mia madre. Ne misi a conoscenza soltanto mia moglie anni dopo. Quello che invece ho tenuto per me solo è un piccolo vizietto che da quella storia mi sono portato dietro sino ai quindici, sedici anni. Ogni volta che mi appartavo con una ragazzina, non facevo altro che rovistare sotto le gonnelle. Due brucianti schiaffoni, che due energiche ragazzotte mi spiaccicarono sulla faccia in tempi diversi, mi fecero capire il rispetto che si deve a ogni donna, togliendomi per sempre quel vizietto. L’altro abuso, del tutto consenziente, mi è capitato a Milano. A 17 anni il dirigente d’una squadra di calcio, sapendo che avevo bisogno di lavorare e nello stesso tempo di allenarmi, mi fece assumere da una grande concessionaria Fiat con l’impegno di avere tutti i permessi calcistici necessari per gli allenamenti Quello che non era previsto fu un terzo impegno che mi ritrovai tra capo e, diciamo, collo. Impiegati e magazzinieri avevamo l’obbligo di indossare un camice nero. In fondo agli scaffali dei ricambi era stato ricavato un locale per cambiarci. Un giorno che arrivai in ritardo non mi accorsi che nello spogliatoio c’era Sonia, una bella 32enne libera e sola, in intimo molto succinto. Cercai di tornare indietro, ma lei mi chiese se avessi paura di una donna. Provocato entrai e mi cambiai anch’io. Ci mettemmo a ridere e Sonia mi propose di cenare da lei il sabato successivo. Quella cena durò un paio d'anni. Sino a quando decisi di tornarmene a Bari. Se Sandina mi aveva insegnato le aste dei primi rudimenti amorosi, Sonia sapeva tutte le lettere degli alfabeti caucasici che, fra consonanti e vocali, ammontano a più di cento. Ricondurre, dunque, dopo decenni, in fredde aule giudiziarie una violenza già di per sé difficile da dimostrare al momento che accadde, serve a ben poco, e da parte mia estremamente ridicolo. Che poi di violenza vera non vi era manco l'ombra, ma solo quel piacere primordiale che uomo e donna han sempre cercato insieme. La stessa natura ha reso le cose complicate in tema di condiscendenza quando, a nudo, nella donna non vi è alcun segno da cui captare la sua indisponibilità, evidenziandolo, invece, in modo netto in noi maschi. Se a noi non va, per un motivo qualsiasi, si nota subito l’indisponibilità …

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