lunedì 31 dicembre 2007

LETTERA AI FIGLI

Figli miei,

ho trascorso la mia vita in funzione vostra. Quanti momenti travagliati, quanti errori commessi, ma nulla mi ha mai fatto pensare, anche per un solo istante, di vivere senza di voi. Ho lottato per avervi con me, ed oggi sono felice per esservi riuscito. Si può essere ex mariti, ex mogli, ex tutto, ma non esistono gli ex padri e gli ex figli, fortunatamente. Non è molto quel che ho messo da parte, ma di ogni mia cosa voglio che vi pervenga una parte equa a testa. E se, per motivi tecnici, uno di voi dovesse avere una parte indivisibile superiore a quella degli altri, deve provvedere a rifondere il di più ai fratelli in altra maniera. Siate giusti fra di voi, come io lo sono stato con voi tutti. Qualcuno non sarà d’accordo, ma io vi assicuro che vi amo tutti allo stesso modo intenso ed esclusivo. Anche il tempo trascorso nella stessa casa è stato più o meno equo: i più grandi sono andati via di casa creandosi la propria vita, i più piccoli sono rimasti più a lungo recuperando il tempo perduto per essere nati dopo. Ma tutti siete stati, e lo siete per sempre, custoditi con amore nel mio cuore.

redatto a bari il 31.12.2007

LA MATURITA’ DI MIA MOGLIE

Son passati tanti anni e la nostra unione è più salda che mai. Abbiamo attraversato momenti tempestosi, ma nulla è riuscito a dividerci anche per un solo attimo. Al contrario, le traversie ci hanno uniti maggiormente. Il tuo dolce tepore ha temprato sempre più il mio animo. Il calore del tuo corpo riesce sempre ad accendere in me la scintilla primordiale del nostro amore. Ogni volta che ti abbraccio mi sembra la stessa sensazione d’allora. In realtà, provo una felicità maggiore, resa sempre più intensa dall’esperienza che di volta in volta accumuliamo. Amarti è sempre più bello: sì, certo, diminuiscono le frequenze; in compenso aumenta l’intensità e la durata. D’altronde i nostri corpi non sono più snelli come una volta, ma sono sicuramente più capaci. Come la nostra casa che, da piccola che era, è diventata grande, comoda e confortevole.

redatto a bari il 31.12.2007

CIAO PINUCCIO

Caro Pino, Amico mio,
concludere la vita a 53 anni è sempre una disgrazia, ma non per te, non per come hai condotto la tua vita; la vera disgrazia è per noi che abbiamo perso così presto un uomo del tuo stampo. I più disgraziati sono quelli che per cieco egoismo e per basso e falso sentimento pregno di malignità te l’hanno resa dolorosa. Han fatto di te l'innocente vittima sacrificata sull'altare di una sordida storia. Potevi sottrartene egoisticamente, ma da quell'essere superiore che sei sempre stato, hai preferito beneficiare altruisticamente chi non lo meritava affatto. Sei stato padre esemplare; ti sei sacrificato totalmente per i tuoi figli. Avresti potuto mollare tutto, infischiandotene altamente, come altri genitori indegni hanno fatto con i propri figli. Invece tu hai continuato serenamente a svolgere il tuo compito proprio per lasciarli economicamente tranquilli, pur sapendo che, indirettamente, altri parassiti ne avrebbero beneficiato. Proprio per questo chi ti conosceva bene ha pianto a dirotto per averti perduto, i tuoi parenti, i tuoi veri amici, i tuoi cari colleghi. Non hanno versato una lacrima, invece, quelli che hanno avuto anche la faccia tosta, dopo il crimine commesso nei tuoi confronti, di presentarsi alle tue esequie esclusivamente per disgustosi motivi di interesse, l’una per paura di perdere quel che tu hai faticosamente messo da parte, l’altro per continuare a vivere alle sue e tue spalle. Due esseri falliti per la vita. Ho provato vergogna per loro, per la loro totale mancanza di dignità. Sono certo che i due ragazzi abbiano già individuato chi siano stati i veri colpevoli delle tue sofferenze e col tempo, se hanno preso soltanto e solo da te, sapranno anche prendere le giuste distanze da chi ti ha fatto tanto male. Trasformeranno quello che tu hai lasciato in amaro fiele per chi si pascerà dei dolci frutti delle tue fatiche. Ma se i tuoi figli non hanno ereditato i tuoi sentimenti puri, prevedo grossi guai anche per loro, purtroppo. Non si possono godere dolcezze conquistate con la cattiveria, poiché nel tuo caso si è agito con la massima malvagità nel commettere un vero e proprio omicidio bianco: bianco perché nessun codice umano lo condanna ma solo quello Divino, bianco per il candore del tuo animo,
costretto a vedere violentati nei sentimenti figli, nipoti e la tua unica, cara sorella che, solo lei, meritava giustamente di più dei tuoi carnefici. Sono peccati che si pagano; a volte anche in terra, senza aspettare che sia il Cielo ad emettere la Divina sentenza, e con la terribile punizione che meritano. Sono certo che il tuo nobile animo ti ha condotto lì dove si è in grado di sentire la voce del Signore, quindi sai già che così è. Pace a te, caro fratello.

redatto a bari il 28.12.2007

PROFESSOR IORIO

Purtroppo per me, sono uno dei tanti che non ha avuto mai il piacere di conoscere direttamente il professor Iorio perché, impegnato col mio lavoro, rimandavo sempre ad altra occasione. L’esiguità di tempo da dedicare ad attività culturali mi ha impedito persino di inviargli, tramite la sua rubrica, questa lettera da mesi tenuta nel cassetto:

“Caro provessor Iorio, ti leggo sulla Gazzetta da tanto di quel tempo che mi viene spontaneo darti con profondo affetto del “tu”; non ci siamo mai visti, ma i tuoi scritti mi fanno credere di “conoscerti” così bene da sembrare uno dei provessori delle mie scuole di cinquant’anni fa. La vita mi ha insegnato che con gli anni si scordano le cose, perciò bisogna sempre imparare, e tu mi dai questa possibilità. Ti sei accorto che il mio pensiero non è proprio raffinato e la mia penna è grezza; proprio per questo io vedo nei tuoi insegnamenti una fonte pura da cui nutrire lo spirito, e non solo; sto pure rinforzandomi i muscoli con tutta la ginnastica che faccio per stare dietro alla tua “profondità d’intelletto”, ai tuoi molti “neologismi”; infatti per capirti meglio sollevo, trasporto, sposto, sfoglio tanti di quei grossi volumi da farmi dolere braccia e gambe: tu che conosci sette lingue, sei la palestra giusta per irrobustire pensiero e corpo di tanti capatosta. Se mi sono sforzato a scrivere è per dirti: “Non zi dann adenza all crtcand”, ai quali il tuo sapere dà fastidio; è l’invidia che ‘ngi juschk a qualche vann a chidd ciucc prsmus. Sapessi nella vita quanti sbutti si è costretti a subire dagli asini raglianti, anche se tu, con la sola penna, li hai punti tutti. In compenso ci sono tanti alunni di buona volontà che hanno bisogno di te. Io, ad esempio, che so a malapena una lingua, dopo avere imparato le tue sette, ne saprò per otto.”

Pregustavo di già la sua pepata risposta, se avesse avuto voglia di darmela; ma non lo saprò mai, almeno ora. Dovrò aspettare non so quanto ma, da profondo credente, sono certo che me la darà quando ci rivedremo nel posto bellissimo in cui sta ora insegnando ai sapienti.

redatto a bari il 26.2.2007

BJUVE

Sono sempre stato dell’idea che fra i peggiori mali della società italiana sia da annoverare, oltre che Politica e Mafia, anche la Juve. Oggi parlo della Juve. Ho dovuto aspettare di vedere veramente la squadra torinese giocare in B per credere di nuovo in un calcio di autentici valori sportivi; ho temuto sino all’ultimo che lo strapotere juventino colpisse ancora, trasformando per l’ennesima volta i torti in meriti a discapito della Giustizia. Le pretese della nuova dirigenza di lasciare la squadra in A hanno fatto subito pensare che ancora una volta l’arroganza, anzi la tracotanza sino alla protervia dei piccoli Agnelli avrebbe avuto la meglio su tutto e tutti. Fortunatamente così non è stato e spero tanto che ciò indichi l’inizio di un nuovo corso per il calcio italiano, fatto soprattutto di lealtà sportiva. Se questo serve a mitigare il dispiacere degli incolpevoli tifosi juventini, fra i quali conto figli e amici carissimi, non dimentichiamo che altre squadre in passato sono state radiate per aver commesso un nanoatomo delle colpe della loro squadra. Anche i tifosi di quelle squadre hanno sofferto molto, sempre per colpa di dirigenti mascalzoni, di gente che con tutta certezza non ama il calcio. Chi doveva controllare ha chiuso tutti gli occhi, soprattutto quelli della coscienza: molti hanno definito il campionato italiano il più bello del mondo, senza accorgersi che intanto lo scudetto negli ultimi quindici anni ha viaggiato senza soste per ben tredici volte sull’asse Milano-Torino. Ma a qualcuno questa sembra una storia seria, logica, plausibile, visto che ormai in tutti gli sport i valori vanno sempre più livellandosi? Lasciando in pace i tifosi, quindi, e ritornando all’istituzione Juventus, queste le colpe che le vanno imputate nella sua storia centenaria:
- essere stata sino al 1945 anche la squadra dei Savoia, sinonimo di massima potenza all’epoca, anche se di un regno miserello; a riprova ecco due indizi che avvalorano l’ipotesi dell’appoggio reale: Gianni Agnelli impose il lutto al braccio ai suoi giocatori alla morte di Umberto II; impressionante la somiglianza fra l’Avvocato e Vittorio Emanuele IV;
- essere stata dal 1945 ad oggi la squadra della famiglia più potente d’Italia con i conseguenti condizionamenti nei vari settori: uno dei tanti, Garonzi presidente del Verona e concessionario Fiat nei primi anni ‘70; tutti da ragazzi abbiamo tifato per qualche squadra, la metà per quella bianconera, quindi in ogni categoria sociale il 50% tifa Juve; di conseguenza, ogni categoria ha favorito per amore la squadra torinese;
- nel campionato 1999/2000 i favoritismi furono così palesi (fra gli altri, vedere gol annullato a Cannavaro in Juve – Parma), che persino l’Avvocato ne fu talmente disgustato da ordinare ai suoi di perdere la successiva e decisiva partita col Perugina, regalando lo scudetto alla Lazio;
- pretendere l’assegnazione dell’ultimo scudetto, quando la squadra doveva essere in serie C o radiata sin dall’inizio del torneo 2005/06 per quanto commesso dal suo Moggi nel 2004/05: condizionamento dell’unica categoria in grado di modificare un risultato a favore o contro, quella degli arbitri che, in gare dove la squadra torinese apparentemente non c’entrava, espellevano i più forti giocatori di quella squadra che nelle gare successive doveva incontrare la Juve, favorita quindi per l’indebolimento degli avversari; e una volta che gli arbitri entravano nel libro bianconero dei condizionamenti, che necessità c’era di ricordarglielo per le annate successive;
- essere passata indenne attraverso ogni bufera giudiziaria: il calcio-scommesse, i medicinali osè e molto, molto altro ancora.
I grandi Agnelli sono sempre riusciti a dimostrarne l’estraneità con il loro indiscutibile carisma; che i tempi siano cambiati lo dimostra la vicenda attuale, anche se questa volta nemmeno l’Avvocato sarebbe riuscito a salvare la squadra dagli illeciti, dalle frodi, dalla slealtà sportiva in cui i suoi dirigenti dimissionari l’hanno coinvolta.
Ma la colpa più grave che soprattutto io addosso alla dirigenza bianconera, colpa per la quale avevo suggerito di cambiare nome alla squadra per l’indelebile macchia che ne ha oscurato per sempre la sua storia, è stata perpetrata fra le ore 18,30 e le 20,30 del 29 maggio 1985 in quel di Bruxelles fuori e dentro lo stadio Heysel, quando gli Agnelli, incapaci di esercitare il loro carisma in Europa come lo facevano in Italia, pur di conquistare la loro prima coppa campioni, fecero scempio delle 36 vittime, loro tifosi e fratelli dei tifosi di tutte le squadre, calpestando i loro corpi caldi con tacchetti e sfera di cuoio, intingendo quella coppa nel loro sangue fresco. Molti ebbero il cinismo di festeggiare quella vittoria alla stregua di una battaglia da bassissimo medio evo; pochi ebbero il coraggio di accettarla come la sconfitta più grande della loro vita, fra questi ultimi ricorderò sempre il sincero Boniek. Gli Agnelli non hanno mai rinnegato quella coppa maledetta; eppure dovevano coglierne i segni nelle tante sventure che hanno colpito la famiglia; personalmente avrei donato cento scudetti alla Juve pur di salvare uno solo degli Agnelli.
Ecco perché oggi si paga: simili peccati prima o poi si devono sempre pagare. E per finire, propongo ancora alla nuova dirigenza di cambiar nome alla squadra: meglio un nuovo nome per un’altra storia, perchè Bjuve è proprio brutto.
redatto a bari il 8.9.2006

CALCIO VERGINE

Dopo tanto calcio sporco, alla fine una nota di purezza: decaduta la Grande Signora, in A è rimasta immacolata soltanto la Signorina Grande a cui, per meglio proteggere la verginità, hanno dato uno scudetto usato, donandole anche un bel record, il titolo di “campione d’italia” (titolo minore, iniziale minuscola) con il punteggio più basso della storia. Dalla vergogna al ridicolo.

redatto a bari il 28.7.2006


LA MAGLIA DI GULLIT

Come ogni anno, ormai consolidata tradizione, anche alla fine dell’ultimo campionato di calcio c’è stato il lancio delle maglie verso gli spalti. Quest’anno, però, mi è toccato assistere a quel che succede dopo, fra i tifosi, per conquistarsi il ricordo del proprio campione.
Trenta maggio 1993. San Siro ore 17,45. La partita è appena finita. I rossoneri festeggiano la conquista del tredicesimo scudetto, girando a bordo campo. Si fermano in curva, invocati dalla fazione più calorosa dei milanisti. Fra le teste dei giocatori le treccine di Gullit spiccano come neri vettori. L’olandesone si sfila la storica maglia numero dieci. Indietreggia per una breve rincorsa e lancia l’ancor vaporoso cimelio verso un gruppo già pronto a lottare per conquistarsi il simbolo di un’epoca.
I supini raggi solari, proiettando le lunghe ombre del tempio calcistico sulla multicroma folla festante, riescono a trovare un pertugio nella tribuna, illuminando, come intenso riflettore, la scena della imminente mischia, ancor meglio di quel che avrebbe potuto fare il più esperto dei registi. La maglia lanciata dalle possenti mani nere vola appallottolata verso una selva di ansiose mani tese.
L’estemporanea palla rossonera esplode improvvisa, come un fiore che sboccia nell’azzurro del cielo crepuscolare. Le maniche si stendono opposte simili a lunghi petali. Il dorso della casacca si apre scoprendo al centro un candido dieci, che il riverbero del sole morente lo fa più luminoso. Il glorioso indumento rallenta il volo, si ferma in stallo, plana poi dolcemente verso il gruppo in fremente attesa. Ondeggia, costringendo la folla ad ondeggiare. Cercando di cambiarne la destinazione, i più forti spintonano il gruppo. Ma non c’è nulla da fare; è già deciso. Con un ultimo scarto la maglia s’adagia su cinque coppie di artigli pronti ad afferrarla.
Una ragazzina e quattro uomini lesti la celano, la scoprono, la tendono. Percepita l’impossibilità di inserirsi nella zuffa, tutti gli altri s’allontanano. S’iniziano le schermaglie decisive. Un signore vestito di blu, con il collo della camicia bianca aperto e la cravatta scura slacciata, tira una manica; le tempie striate di grigio, una rada corolla di capelli neri intorno al cranio, calvo in cima, due occhietti spiritati, ha l’aspetto del tradizionale impiegato statale. All’altra manica è attaccato un giovane dall’aria decisamente professionale; meno di trent’anni, occhi azzurri, riccioluto e biondissimo, camicia di seta, jeans firmati e mocassini. Mezza spalla e il colletto del trofeo conteso sono fra le dita sottili ma forti di un giovanotto dall’evidente spirito studentesco; corvina e folta la lunga chioma. Un energumeno, alto forte robusto, i capelli castani a spazzola, abbigliamento e sembianze da lavoratore di braccio, stringe il busto della maglia, coprendo in parte il mitico numero dieci con la larga sinistra callosa chiusa a pugno; la destra, intanto, sospinta dal braccio muscoloso, distribuisce equamente vigorosi spintoni. Al lembo inferiore sono abbarbicate le piccole mani dell’unica donna la quale, più che impossessarsi della maglia, sembra ne sia posseduta come in un esorcizzante ballo di San Vito; i suoi lunghi capelli rossi ondeggiano dappertutto, simili a fiamme nella vorticosa tempesta intorno a lei. E’ la sola in balia degli eventi.
Il primo a mollare è il funzionario statale dopo una poderosa spinta dell’energumeno. La manica appena liberata cade subito preda delle svelte mani dello studente. Poco importa all’energumeno, perché nel suo improvvisato piano di battaglia ha previsto di liberarsi prima di chi può dargli più fastidio; costringere, poi, i due ragazzi alla resa sarebbe stato un gioco.
Rivolge il secondo attacco, perciò, contro il professionista. Cerca dapprima di aprirgli le dita in cui è stata arrotolata, intanto, la manica destra. Non riuscendovi e accortosi che anche l’avversario possiede una bella forza, passa a menare spintoni energici per fargli perdere l’equilibrio e così mollare la presa. Inutile anche quest’attacco, sta per passare ad azioni più distruttive, quando s’accorge con stupore che l’antagonista è stato costretto a mollare la presa per prendere istintivamente al volo il suo costoso orologio, che aveva perso un asse del cinturino per i continui strattoni. Il professionista, recuperato il prezioso, s’allontana imprecando. Approfittando della indifferente ma volontaria distrazione dell’energumeno, lo studente s’impossessa agile dell’altra manica. Ora la maglia è per molto meno della metà nelle sue mani; la gran parte è nella sinistra dell’energumeno, tranne il lembo inferiore dove, tenacemente avvinghiata, s’aggrappa ancora la ragazzina. Fa tenerezza.
Le sue possibilità di conquista sono nulle; come d’altronde pochissime sono le chances dello studente. Infatti, certo di aver superato gli ostacoli più duri, il viso dell’energumeno si rilassa in una smorfia di trionfo. Con le fronti ricamate da gocce di sudore che, scivolando lungo le guance arrossate, si sperdono nei colletti delle magliette in rivoli sotterranei, tre paia d’occhi si fronteggiano. Il primo dilatato dal piacere dell’imminente vittoria, il secondo illuminato da viva intelligenza, il terzo spaurito. All’ennesimo strattone le mani sottili della ragazzina perdono la presa sul tessuto. Stanca ma non vinta, si scosta di pochi passi, rimanendo seduta sul gradone a seguire la conclusione della conquista.
Un ghigno che vorrebbe essere un sorriso fa esplodere una forza animalesca, che l’energumeno riversa nell’ultimo atto. Grugnisce, si agita, scuote l’avversario dall’una all’altra parte, in avanti poi indietro. Lo solleva per un istante e lo lascia ricadere l’attimo dopo. Sembra che l’impari duello debba concludersi da un momento all’altro; frazioni di secondo e dovrebbe essere fatta. Ma lo studente, intanto, non molla. Usa le braccia come ammortizzatori. Non si oppone a quella forza della natura; anzi, accondiscende con lucidità ad ogni brusco movimento dell’altro nel tentativo, inutile in apparenza, di sfinirlo. La presa, comunque, è sempre ben salda. I rivoli di sudore s’ingrossano sino a rendere entrambi fradici. I dieci sensi sono attivamente all’erta, le due menti in contrastante riflessione, le quattro braccia ferme per una breve pausa; sembrano pilastri di cemento quelle dell’energumeno, cavi d’acciaio puro le braccia dello studente. La lotta riprende. Sembra bella, interminabile, invece il tutto dura solo da una manciata di minuti. Non c’è mai stata violenza pura. Ognuno ha usato i propri mezzi nei limiti della lealtà soggettiva. La breve pausa ha dato linfa rinnovata all’energumeno che riparte con accanimento. Pur avendo speso indubbiamente di più, ora è deciso a metter fine allo scontro, a conquistarsi definitivamente il cimelio. Lo studente continua ad opporre resistenza passiva ma, tuttora con energie fresche, la conclusione sembra segnata. Quando quasi tutta la maglia, bagnata ora anche del sudore dei campioni sconosciuti, è nelle mani sicure del più forte, accade l’imprevisto. La ragazzina, scattata dal sit-in che s’è imposto e aggirando le spalle ampie dell’energumeno, ormai esausto, gli infila le sue delicate manine sotto le capaci ascelle provocandogli un frenetico solletico, che in breve lo costringe a mollare completamente la sua faticosa conquista. Veloce lo studente afferra la maglia di Gullit e corre via, subito raggiunto dalla ragazzina. L’energumeno si riprende all’istante. Pronto a scattare per inseguirli, rinuncia vedendoli abbracciati far scomparire tra loro l’insperato trofeo. Capisce che quella maglia era già stata destinata, quando scorge allontanarsi, illuminate dall’ultimo sole, le due teste unite, l’una rossa e l’altra nera.
Dedica dell’autore
A Gullit e agli altri 10” della storia rossonera: dai primi pionieri, passando per Green e Liedholm, per Schiaffino, Grillo e Rivera, sino ai giorni nostri. Un grazie riconoscente per le tante gioie che ci hanno donato. Onore agli “Imbattibili di Fabio Capello”.
Una dedica riconoscente da chi tifa MILAN da una vita.

redatto a bari il 30.5.1993

IL GRANDE MAMMUTH

PROLOGO
Accade di frequente, a chi è genitore, che la sera i figli più piccoli non riescano a trovare facilmente sonno. Ci si sforza utilizzando vecchi metodi, se ne sperimentano di nuovi per cercare di addormentarli. Seduti ai loro piedi, cogliamo con sollievo i primi segni premonitori del sonno imminente nell’altalenante movimento delle palpebre, ormai pesanti. Quando siamo certi che Morfeo sta per accudirli per qualche ora e cominciamo ad assaporare il piacere di calarci nell’atmosfera di pace, diventata l’ultima parte della sera senza la loro chiassosa presenza, ecco che inaspettata la loro vocina ci impietrisce. Gli occhietti tornano vispi, la temuta domanda “Papà, mi racconti una favola?” ci paralizza. A me è capitato più volte. Ricordo bene qualche sera fa; ero riuscito a far addormentare la mia bambina con un’arcaica nenia barese. Mi accingevo in punta di piedi a lasciare la cameretta, quando quella richiesta mi ha pugnalato alle spalle inchiodandomi al mio “dovere di padre”. Non che me ne volessi sottrarre, ma l’idea di ripeterle per l’ennesima volta una delle tante notissime storielle già mi procurava nausea. Il lieve sgomento mi ha causato un brivido lungo il filo dorsale e, vinto un passeggero capogiro, mi sono riseduto sul lettino controvoglia. Ho iniziato dapprima a passare in rassegna i libri di favole sul comodino. Il solo leggerne i titoli, che conosco da una vita, mi ha fatto proprio star male. Un atlante geografico spiccava per la sua diversità fra quei libri. Giusto per prender tempo e sperare in uno degli imperscrutabili misteri che regolano il sonno dei bambini, facendolo giungere quando meno ce lo aspettiamo, ho preso a sfogliarlo di malavoglia.
- “Che libro hai preso, papà?”
- “Non è un libro; è un atlante.”
- “Ma sembra un libro. E cos’è un atlante, papà?”
- “E’ un libro …. “
- “Avevi detto che non è un libro.”
- “Cioè, è un volume in cui sono disegnate le mappe di ogni nazione del nostro pianeta.”
- “E che cosa sono un volume, le mappe, ogni nazione, nostro pianeta?”
Perline di sudore hanno preso a scorrermi giù sino al fondo schiena. M’ero cacciato in trappola; il classico ruzzolone nella brace. Ero fermo a guardare angosciato la cartina dell’Europa quando la vecchia lampadina, a volte spenta anche per anni, è venuta in mio aiuto illuminandomi. Vedendo con attenzione i contorni del Mediterraneo, l’ispirazione appena nata mi ha suggerito una favola nuova, inventata lì per lì.

IL GRANDE MAMMUTH

Moltissimo tempo fa Panthalassa, l’unico oceano allora esistente, abbracciava felicemente Pandea, la terra emersa, unica anch’essa. Su quell’immensa isola vivevano, non altrettanto felici, donne e uomini. Non era quella l’intenzione del buon Dio al momento della Creazione. Solo dopo la disobbedienza di Eva e per punire gli uomini, Egli si costrinse a trasformare quell’unico enorme continente da Paradiso Terrestre a Valle di Lacrime, nella quale cominciarono a vivere gli esseri umani, condannati per sempre alle terrene sofferenze. La popolazione, intanto, cominciò a crescere sempre di più; iniziarono a sorgere paesi sia sulla costa che all’interno della terra emersa, ma in tutte le località gli abitanti continuavano a essere infelici. L’infelicità di quelli che vivevano lungo le coste dell’immensa isola era causata dalla paura che l’infinita distesa delle acque incuteva nei loro animi ancora semplici. Molti avevano tentato d’avventurarsi in mare aperto, vinti più dalla sete del sapere che dal reale bisogno di solcare quelle acque che si sperdevano nell’ignoto. La maggior parte di loro tornava immediatamente a riva salvandosi; la paura era stata più forte della voglia di conoscere. Chi sceglieva di inoltrarsi in quel mare senza fine, per disgrazia non faceva più ritorno; la morte era più forte di tutto. La morte è sempre la più forte, paziente ma invincibile. Peggiore era la sorte degli abitanti dell’interno, il “retro”, come i marinai dell’epoca chiamavano i paesi che non si affacciavano direttamente sul mare. Furono proprio loro a coniare i termini “retrivo”, “retrogrado”, riferendoli agli abitanti delle zone interne, cavernicoli, valligiani, montanari o altro che fossero; gente ancora più involuta di quella costiera per gli ostacoli naturali che riducevano di molto il loro orizzonte, limitato com’era da caverne, boschi, montagne, colline. I motivi erano più che sufficienti per rendere tutti infelici; lo sgomento dell’immenso frenava l’impellente bisogno di progredire dei marittimi; i retrogradi, inconsciamente impediti a vedere oltre la punta del proprio naso, accettavano con fatalità la loro misera condizione. I dubbi e le paure del mondo primordiale limitavano molto l’evolversi di quegli animi primitivi. Quella situazione non andava a genio nemmeno al Signore che, perciò, decise di risistemare geograficamente Panthalassa e Pangea, rompendo soprattutto la monotonia della biblica spartizione fra Terra e Acqua. Senza più indugiare, a passo spedito superò l’Archivio Universale delle Anime dove era sistemata la Prima Divisione, nella quale erano raccolte un numero grandissimo di cartelline con il solo foglio del Giudizio Irrevocabile di ogni anima defunta. Attraversata la grande Sala del Giudizio Irrevocabile, si fermò nella Seconda Divisione, il Laboratorio delle Opere Umane, dov’erano sistemati i fascicoli, più o meno grandi a seconda del caso, degli esseri viventi che al momento popolavano la Terra. Le due Divisioni erano dilatabili a dismisura; al principio la seconda era molto più ampia della prima per il semplice fatto che il mondo dei più era quello terreno; Anime Maestre affollavano il cammino, tenendo per una mano l’ultimo arrivato e nell’altra il suo fascicolo. Ritirata la cartellina col foglio del Giudizio Irrevocabile, che stabiliva in quale dei Sette Cieli l’anima appena giudicata sarebbe finita, il fascicolo veniva portato al macero per così riutilizzare la sua energia a Insindacabile Parere Divino. C’era infine una Terza Divisione, grande senza limiti, Dimensione delle Anime Assegnate, in cui erano stipati a perdita d’occhio un numero infinito di Registri. In quei capaci volumi erano elencati solo nomi e date dei futuri esseri umani in ordine strettamente cronologico. Ad ogni nuovo concepimento, nella Seconda Divisione veniva creato il fascicolo del relativo passaggio terreno. Da quell’istante i singoli fascicoli cominciavano a crescere più o meno voluminosamente in rapporto alla durata del passaggio e delle opere compiute. [Dopo la cacciata dal Paradiso, il Signore decise di disinteressarsi delle faccende umane nella loro parabola terrena e, per aggravarne la pena, di concedere agli uomini il libero arbitrio regolato dalle Sue Leggi eterne, infallibili e note a tutti, stabilendo la riconquista del Paradiso perduto per chi le rispetta. Ogni individuo ha la libera facoltà di conquistarsi il Settimo Cielo o di condannarsi al Cielo più infimo; nascendo si ha l’obbligo di sviluppare al massimo la propria coscienza, sempre seguendo la Legge del Signore. Non riuscendoci, una volta davanti a Lui, il Giudice Supremo ci restituisce quella parte di coscienza di cui ci si è privati sulla Terra, in modo che ogni individuo riesca a capire perfettamente gli errori commessi e, di conseguenza, il Cielo a cui si è destinati; più coscienza si è persa per strada, più è basso il Cielo d’appartenenza. Infatti, gli autori dei delitti più disumani vengono volgarmente definiti “Uomini senza coscienza”. E nel Cielo Infimo, reintegrati della piena coscienza, essi sono condannati a soffrire pene atroci nel rivedere, in presenza di tutti e senza più falsi alibi, i crimini commessi, provando in eterno le stesse sofferenze patite dalle loro vittime. Altro che Inferno; le sofferenze fisiche, alla fin fine, sono lenibili in qualche modo; quelle dell’animo, invece, sono insopportabili. La differenza noi mortali la conosciamo molto bene, supportati come siamo dalla struttura fisica; figurarsi nel mondo dello Spirito puro, in cui tutto il peso dei nostri peccati deve essere sopportato dalla sola anima.] Dunque, Nostro Signore, mentre controllava l’andamento del proprio Creato e ricercava nel Laboratorio delle Opere Umane quel che Gli interessava, non tralasciava mai il Suo ruolo principale di giudicare ogni anima che si presentava al Suo cospetto. Egli è sempre stato Trino, anche se a noi uomini ha manifestato questa Sua Virtù tanto tempo dopo. Preso l’elenco dei fascicoli della Seconda Divisione, quindi, cominciò a scartabellarlo per ricercarvi un nome. Naturalmente non aveva bisogno di consultare alcunché, conoscendo bene vita, opere e morte di ogni essere terrestre; solo che Gli piaceva, di tanto in tanto, assumere atteggiamenti a immagine e somiglianza di quell’essere che Lui stesso aveva creato da un pugno di polvere e uno schizzo di saliva. L’Indice Divino scorse veloce lungo l’elenco sino a fermarsi sul nome cercato. Italo il nomade. Pangea centrale, pastore di mammuth, corporatura e altezza eccezionali per i tempi, trentatreenne; un numero evidentemente caro al Signore. Per fare quel mestiere Italo doveva avere un carattere molto mite, perché quei bestioni erano facilmente irascibili e solo una persona dall’animo buono li teneva facilmente a bada. Dalla voce di un uomo i mammuth riuscivano a percepire quella della sua coscienza, molte volte così fievole da essere captata solo grazie ai loro enormi orecchi. Il Signore lesse le note caratteristiche di Italo, avendo conferma di quel che già sapeva. Lo chiamò. Grande fu la sorpresa del mite pastore, mentre era in santa pace intento alle quotidiane fatiche nella tranquilla e verde valle natia, nell’udire quella Voce soprannaturale. Non aveva mai udito prima una voce tanto potente, ma non ebbe timore, tranquillizzandosi nel vedere con quale calma i mammuth guardavano il cielo con le sventole tese ad accogliere serenamente la medesima Voce. Perciò, anch’egli si predispose ad ascoltare.
- “Italo …. AscoltaMi. Sarai parte di un progetto che permetterà a tutti gli uomini di essere meno infelici; per questo ho bisogno della tua vita e di quella del tuo mammuth più grande. Il vostro sacrificio Mi servirà a creare un popolo migliore. Dopo esserti protetto con copricapo, busto e stivaloni lunghi sino all’inguine, forgiati col cuoio più duro, monta l’animale prescelto e conducilo al centro della Grande Vallata. Là attendi ch’Io completi l’opera. Il vostro premio sarà il Settimo Cielo, e sulla Terra nessuno dimenticherà più il tuo nome e il tuo mammuth.”
Il placido Italo non aveva mai detto di no nella sua vita. A nessuno. Era, come già detto, il più buono degli uomini. Sempre pronto a soccorrere ogni essere in difficoltà: aveva un fratello gemello; l’altruismo e il senso del giusto erano tanto innati in lui che da piccolo, nutrendosi del latte della madre, sentiva istintivamente quando smettere per lasciarne la giusta metà al fratello. E dal momento che fu in grado di reggersi non smise mai di offrire il suo aiuto a chiunque. Nel momento più importante della sua vita, quindi, non ebbe nessuna esitazione di donarla al Signore e di rispettarne la volontà anche per la sorte del suo animale. Mentre il Supremo si apprestava a realizzare quel progetto rivoluzionario Italo, come gli era stato suggerito, protetto dalla corazza di cuoio e in sella a Medi, il capobranco, il più grande dei mammuth, si portò al centro della vallata e attese. Era intento ad ammirare per l’ultima volta, serenamente, i luoghi che l’avevano visto diventare uomo, quando notò improvvisamente il paesaggio a lui tanto familiare cambiare aspetto. Le montagne divenivano sempre più piccole, la vallata sempre più stretta. Capì subito, guardando in giù, che non erano montagne e vallata a ridursi, ma lui e Medi che s’allontavano. Stavano volando. Ciò che gli sfuggiva fu il particolare che, salendo, crescevano. Si ingigantivano, diventando sempre più enormi, immensi. Le loro proporzioni, però, restavano inalterate, impedendo a Italo di accorgersi della stupefacente metamorfosi che stavano subendo. Ebbe soltanto la certezza che quel volo impossibile era opera del Sommo. Ne fu felice. A un certo punto, raggiunsero un’altezza tale che Italo poté vedere, primo uomo dalla Creazione, che Panthalassa e Pangea formavano insieme un corpo perfettamente sferico. In quel momento l’ascesa si arrestò. I loro corpi, intanto, avevano raggiunto le dimensioni progettate dal Divin Architetto. Fermi per pochi attimi in quell’inerzia solenne, fecero a ritroso il percorso che li aveva condotti a quell’altezza. La caduta diveniva sempre più veloce; tanto vertiginosa da indurre Italo a credere di essere fermi, e che fosse la palla di terra e acqua a correre loro incontro, sempre più grande. La discesa raggiunse una velocità tale da strappare le loro anime che, libere dei corpi, ripresero a salire, ora dolcemente, verso il Signore, accolte, infine, amorevolmente fra le Sue capaci braccia. Intanto i corpi, abbandonati al loro destino, ma da Lui guidati con esperta mano, continuarono la folle caduta verso il centro esatto della Pangea. Alla distanza voluta, Egli impresse alle due figure una lieve rotazione, costringendole ad atterrare di fianco con gli occhi volti verso il tramonto. L’impatto fu di una violenza terrificante, riproducendo un “bang” che Gli ricordò l’altro simile udito alla Creazione dell’Universo. Aspettò con calma proverbiale il dissolversi del nuvolone che avvolgeva il pianeta. Tornata nitida la visibilità, il Padreterno si soffermò ad ammirare la grandiosa opera, compiacendosene. La tremenda scossa aveva prodotto un enorme cratere in cui masse inarrestabili di acqua si riversavano da una spaccatura a occidente. La Pangea non esisteva più; dov’era la grande vallata, ora dominava quel cratere a forma di mammuth in volo. L’acqua lo riempì, riportando a galla il lungo stivale sinistro di Italo che si saldò a nord con la terraferma, proprio al limitare delle alte montagne che circondavano la vallata, e al di sotto col fondo marino che s’innalzò per sostenerlo. Dei corpi non v’era più traccia, come se non fossero mai esistiti. Ma quel cratere a forma di mammuth con lo stivale in groppa dimostrava concretamente il loro passaggio terreno. L’impatto, inoltre, aveva creato delle abissali fratture lungo i punti più deboli della Pangea, staccandone una massa enorme che andò alla deriva verso occidente; una miriade di terre piccolissime si estese a oriente, mentre grandi isole si spostarono più a sud. Frammenti infiniti si sparsero per tutta la Panthalassa. Rimirata a lungo la nuova sistemazione, il Signore dette nuovi nomi ai luoghi appena creati. Chiamò Mare Medi, dal nome del grande mammuth, il cratere riempito dall’acqua. Seguendo la costa modellata dalla sua sagoma, il punto in cui l’acqua aveva invaso il cratere fu chiamato Stretto del Naso Lungo; risalendo verso nord, i due Golfi ebbero i nomi di Lobo Destro e Lobo Sinistro; i frammenti di terra circondati dal mare si chiamarono Isole degli Occhi, Isole del Padiglione, Isole del Cuore, Isole di Coda. In onore di Italo il Signore chiamò Italia lo stivalone al centro del nuovo bacino. Le città che poi sorsero attorno ad esso costituirono lo Stato del Grande Mammuth e i suoi abitanti si chiamarono Fratelli del Grande Mammuth. Non più limitati dalle montagne, non più angosciati dall’oceano infinito, essi trovarono il giusto equilibrio nei precisi punti di riferimento dei nuovi orizzonti per raggiungere la felicità perduta. Intanto, invidiosi per tanta bellezza e ricchezza, dal nord cominciavano a calare i barbari……

EPILOGO
La mia bambina era ancora sveglia e continuò a tempestarmi di domande. Naturalmente, non fu così semplice, come sembra, terminare la bella favola. A ogni nuovo vocabolo venivo interrotto e mi era impossibile riprendere se prima non le spiegavo alla meno peggio il significato. Ancora più difficile mi riusciva spiegarle interi concetti che, sorprendentemente, lei afferrava al volo. Senza dubbio per “colpa” di quel retaggio mediterraneo che ancora oggi ci contraddistingue. Pur se estenuato dalle domande e dall’ora tarda, mi riuscì alla fine di portare a termine la storia, ma non di raggiungere lo scopo che il racconto fantasioso doveva cogliere. La bimba era più sveglia di prima; l’unica consolazione, se non altro, era quella di averle insegnato a sollecitare la fantasia. Insomma, per riuscire a farle prender sonno, sono tornato al vecchio sistema della ninnananna. E questa volta finalmente, mi lasciò alla pace delle ultime ore serali. Andato a letto, sfinito com’ero, mi addormentai all’istante, sognando lo stesso sogno della mia bambina. Il Grande Mammuth.

redatto a bari il 30.4.1987