TORRE TRESCA
La mia primavera cominciavo appena a viverla, quando la morte di Nico sconvolse l’esistenza della mia famiglia. Per Babbo e Mamma fu un durissimo colpo perdere il loro bambino più piccolo in quel tragico modo. Soprattutto per Mamma, che se lo vide scivolare dalle braccia e cadere dal balcone di casa. Abitavamo in via Carulli, al primo piano del 114. L’abbiamo sempre chiamata “la casa di zia Mamma”, una zia di mio padre che per più di quindici anni ci ha dato ospitalità; all’inizio soltanto ai miei, poi a noi ragazzi, man mano che s’arrivava. La guerra aveva portato come sempre distruzione e miseria, le case erano poche, ogni famiglia s’arrangiava come poteva. In quell’unica stanza fui il primo ad arrivare; Lilli mi seguì un anno dopo; avevo cinque anni quando ci raggiunse Elvira, che sarebbe rimasta la nostra unica sorella. Il giorno della disgrazia il piccolo Nico aveva appena tredici mesi, quando a me ne mancavano solo quattro per i nove anni. Io e Lilli eravamo stati a ritirare le pagelle; tornati a casa, notammo gente presso il nostro portone. La evitammo per salire e sulle scale fu zia Mamma ad informarci. Alle nove di quella stessa mattina mia madre, sfuggito il bambino dalle sue mani, si era precipitata in strada per raccoglierlo e con un auto di passaggio, rarissime a quel tempo, aveva raggiunto l’ospedale, allora situato provvisoriamente nel palazzo dell’Università a piazza Umberto. Ma non si era potuto far niente, Nico morì a mezzogiorno. Mio fratello minore aveva le guance paffute e rosee, la pelle ambrata, capelli a buccoli biondissimi, occhi grandi e vispi d’un intenso celeste, proprio come quelli di Babbo. Ben proporzionato e alto per la sua età. Un vero serafino, come quelli che dipingeva spesso mio padre. Bello, bello, bello. Il Signore s’era lasciato scappare un angelo e lo rivolle subito a Sé con quel volo proprio angelico dal balcone, nonostante quella grossa chiazza livida sulla tempia sinistra. Lo ricordo ancora sul letto di morte, un prezioso ninnolo rotto fra quei cioccolatini e confetti con cui mani familiari l’avevano composto. Mamma non sarebbe stata più la stessa, aveva trentatré anni. Avrebbe poi subito, per l'involontaria disattenzione di un momento pagata caramente, anche un processo penale, da cui ne venne fuori per insufficienza di prove, perché nessuno volle testimoniare contro una madre già colpita a morte; solo il cieco cinismo di una giustizia stupida poteva arrivare a tanto; cominciai a capirlo d’allora. In seguito, anche nei rari momenti in cui le veniva da sorridere, quel dolore cancellò la radiosità dal viso ancora giovane di mia madre, lasciando una sottile ombra a velarle per sempre gli occhi. Babbo, quarantatreenne, fu preso da un dolore così intenso da svenirne. Non avevo mai visto mio padre disteso in terra, occupava l’intero pavimento della cucina. Ripresosi a fatica, tirò fuori la sua corazza di maschio che la società gli imponeva, e vi richiuse lo strazio tremendo che la perdita di quel figlio gli aveva procurato. Io, Lilli e in maggior misura Elvira assorbimmo le conseguenze della tragedia con meno dolore, aiutati molto dalla nostra giovane età. Era la vigilia di Sant’Antonio e tutto accadde in un attimo, mentre suonando transitava la banda in giro per il quartiere.
I miei decisero subito di lasciare quella casa che ci avrebbe sempre ricordato il tragico fatto. Ma era una decisione non facilmente realizzabile per la carenza di abitazioni che da sempre affliggeva il paese. Mamma aveva già fatto due tentativi infruttuosi per ottenere una casa popolare. Al terzo ci andò meglio, ma l’appartamento assegnatoci alla Stanic non piacque a mia madre. La prima volta che si recò a vederlo, dalle finestre aperte le apparve sullo sfondo l’immutabile squarcio del Cimitero. “Madonna mia! Devo vedere per sempre questo bel panorama? No, no; non mi piace; Vi passerò l’eternità lì dentro quando sarà il momento; non voglio farlo anche da viva. No! Non la voglio ‘sta casa.” Furono le uniche parole che mia madre disse in quella fredda abitazione, non immaginando neppure alla lontana che di là a poco in quel Sacro luogo vi sarebbe andata ogni giorno. Comunque, la fisima di mia madre e la lontananza dalla Sud-Est, la ferrovia dove mio padre lavorava, li costrinsero a rinunciare all’alloggio e, inconsapevolmente, a condannare mio fratello.
Nel giro di pochissimi giorni, nonostante il dolore che l’affliggeva e che mai più l’avrebbe abbandonata, Mamma trovò una soluzione momentanea, ma indicatissima, per poter finalmente avere una casa popolare. Negli ultimi anni era diventata una consuetudine dimostrare di vivere, seppur per pochi mesi, in veri e propri tuguri sovraffollati per ottenere l’assegnazione di un’abitazione. E’ quello che fece mia madre in previsione del nuovo bando dell’Ina-Casa per nuovi alloggi in costruzione a Japigia, quartiere periferico di Bari in forte espansione in quei primi anni cinquanta.
Nella zona compresa fra
Mia cugina Maria, abitava lì da qualche tempo. Mia madre e la nipote decisero di dividere a metà la stanza che lei occupava col marito Giovanni e i sette figli. I nostri parenti si sarebbero sistemati alla meno peggio nella parte anteriore con la porta d’ingresso; noi nella posteriore con l’unica finestra, divisi solo da un’enorme panno scorrevole come parete divisoria. Per abbandonare il più in fretta possibile la casa del dolore, il quindici giugno, due giorni dopo il funerale di Nico, in attesa che Mamma e Maria sistemassero alla meglio le nostre cose nella mezza stanza, trovammo ospitalità a casa del fratello di mia madre, zio Angelo, che con la famiglia aveva casa popolare a via Orazio Flacco. Stazionammo in quel bivani un paio di settimane.
I primi di luglio, a bordo di una tipica carrozza (Babbo non dimenticava mai le sue origini “nobili”) da posteggio trainata da un cavallo baio, seguiti dal consueto carro piano con la nostra roba, ci avviammo verso i nove mesi più avvincenti della mia vita. Lasciavamo dietro di noi l’asfittica zona centrale della città col traffico ordinato, perché ancora limitato a poche auto, per avventurarci in un mondo a noi sconosciuto. Ci aspettavano giorni impensabili per noi ragazzi del centro, penalizzati da spazi esigui e dal verde ridottissimo del quartiere murattiano. Varcate le due colonne che limitavano l’ingresso del ghetto, a meno di cento metri dal Canalone, ebbi la sensazione di oltrepassare
L’atmosfera creata dal nostro arrivo fu del tutto simile a quella che suscitava l’arrivo della diligenza nei villaggi del vecchio West. Erano gli anni d’oro di Tex, Capitan Miki, Il Grande Blek, nostri eroi di carta; chiaro che quelle avventure suggestionassero i ragazzi, che a frotte si attaccarono alla carrozza. Chi non riuscì a trovare appiglio, ci scortò fiancheggiandola sino al capannone 10, il penultimo sulla destra, dove c’era la stanza 26 che avremmo diviso con i miei cugini. Le stanze situate in ogni capannone erano una cinquantina, una di fronte all’altra lungo un corridoio che terminava ai servizi comuni. Due grandi portoni esterni in legno, posti sulla facciata principale e su quella posteriore, chiudevano gli accessi al corridoio; ma per incivile menefreghismo erano lasciati quasi sempre aperti. Arrivati all’ingresso principale del nostro capannone, i ragazzini circondarono la carrozza in attesa di vedere chi fossero i nuovi arrivati. Appollaiato in cassetta, mi sporsi lateralmente, stupito dal clamore. Affacciato al finestrino vidi Lilli divertito con la sua bionda chioma al vento. La nera testolina di Elvira che sbirciava in giro curiosa. Nei loro occhi, celesti dell’uno e verdi dell’altra, lo stesso mio stupore. Babbo era appoggiato allo schienale del sedile interno. Il suo volto esprimeva dolore passato e incertezza futura. Mamma gli era di fronte, non potevo scorgerla. Ma sul volto di mio padre, come in uno specchio, potevo immaginare riflessi gli stessi sentimenti. Il cielo, limpidissimo, era di un azzurro violento. Indifferente.
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